Editoriali

I.C.I. E CHIESA

a cura di Alessandro Giovannini

16 Giugno 2018

Il dibattito sulla tassazione patrimoniale degli immobili appartenenti agli enti ecclesiastici è destinato a non esaurirsi. La sentenza della Corte di Giustizia U.E. del 6 novembre 2018 lo riapre in termini sia giuridici, sia, indirettamente, politici.
Dal primo punto di vista la questione si può riassumere così. Ad esclusione degli immobili della Santa Sede che, in quanto di proprietà di una persona giuridica di diritto internazionale, beneficiano, al pari di tutti gli immobili propri di enti consimili, delle esenzioni previste dai Trattati internazionali ed in specie, per lItalia, dall’art. 16 del Trattato Lateranense, gli immobili degli enti ecclesiastici devono essere tassati conformemente al diritto nazionale e a quello dell’Unione europea.
Quest’ultimo vieta agli Stati membri di concedere “aiuti di stato” ai singoli operatori economici, anche nella forma di benefici fiscali, poiché idonei, tali benefici, ad alterare la concorrenza, declinazione della libertà economica. La Commissione europea aveva ritenuto che la legislazione sull’ICI in vigore fino al 2012 e l’art. 149 del testo unico delle imposte sui redditi violassero il divieto sugli aiuti: esentando gli enti non commerciali che svolgevano attività bensì sociali, ma con modalità “anche commerciali”, determinavano un contrasto insanabile con il diritto alla libertà di mercato.
Con la sentenza del 2018 la Corte afferma, da un lato, che la legislazione attuale in materia di I.M.U., che ha sostituito quella sull’I.C.I., è conforme ai Trattati giacché eleva l’attività in concreto esercitata, le sue modalità di esercizio e di copertura dei costi ad elementi discriminanti; dall’altro, che l’originaria normazione, siccome posta in violazione, proprio, della libertà di mercato, obbliga lo stato italiano a recuperare il tributo dal 2006 al 2011.
Per i giudici dell’Unione, infatti, solo la dimostrazione di “un’impossibilità assoluta di recupero” da parte dello stato stesso avrebbe potuto legittimare l’abbandono del credito (ad impossibilia nemo tenetur). Dimostrazione, però, che l’Italia non fornì adeguatamente alla Commissione europea, essendosi limitata, in sede di procedimento d’indagine, ad una semplice comunicazione assertiva di difficoltà giuridiche e materiali interne.
Il succo della sentenza è questo. Cosa accadrà da ora in poi? Il diritto unionale impone l’intervento della Commissione europea che, insieme al governo italiano, deve individuare gli strumenti più idonei ad attuare la sentenza. In seguito alla decisione della Commissione, poi, sarà il Parlamento italiano a dover disciplinare il recupero. Per i comuni, titolari del gettito dell’imposta, è infatti spirato il termine per accertare e riscuotere.
Al momento non si intravedono soluzioni generalmente condivise. Al di là di generiche proposte sulla “forfetizzazione” dei debiti, sull’eliminazione delle sanzioni o sulla modulazione dei pagamenti, la “nebbia agli irti colli” rimane fitta. Non è difficile prevedere, tuttavia, che la Commissione europea non sarà disposta a cedere troppo terreno al governo italiano, quand’anche questo si presentasse con convinzione e determinazione politica al tavolo del confronto. È probabile, quindi, che la vera partita per l’individuazione di una soluzione equa e di buon senso si sposti nel nostro Parlamento.
La strada potrebbe essere quella di riprendere in mano i princìpi della Costituzione repubblicana, cosicché, in fase di attuazione della decisione della Commissione, si possa ritornare a bilanciare gli interessi in gioco.
Spiego subito quel che intendo dire, partendo da una considerazione telegrafica e fors’anche banale sul ruolo della politica.
La politica è strumento a servizio dell’uomo, non è l’uomo a servizio della politica, proprio come lo è o dovrebbe esserlo il diritto. Non scopro, certo, una nuova America affermando che è la politica a dover agevolare la soddisfazione dei bisogni dei singoli e dei popoli, e che non sono le persone e i popoli a doversi stendere su tanti lettini di Procuste quante sono le “ideologie” da esaudire. Questi lettini, lo sappiamo, portano solo sanguinamenti e amputazioni, mai appagamento e consolazione.
Il richiamo al mito di Procuste non deve inquietare perché, in realtà, vuole significare una cosa molto semplice: le soluzioni interpretative devono essere ricercate nel profilo finalistico delle norme e nel loro destinatario ultimo.
Eccoci al punto: se l’attività economica dell’ente ecclesiastico è svolta al solo o al principale scopo di destinare gli “utili” da essa ritratti a finalità di rilevanza sociale e non anche al prevalente soddisfacimento delle esigenze, per così dire, egoistiche dello stesso ente proprietario dell’immobile, la procedura di recupero potrebbe non attivarsi.
Propongo un esempio elementare ma che, proprio per questo, mi auguro inequivoco. Se l’ente trasforma il convento in albergo e agli ospiti richiede un corrispettivo suscettibile di coprire i costi di gestione e remunerare l’attività alberghiera in sé considerata, esso, ente, svolge senz’altro un’attività commerciale. Ma se indirizza il profitto alla cura delle tossicodipendenze, anziché alle “casse” della congregazione, la destinazione altruistica dell’utile stesso depotenzia, svirilizza la concorrenzialità dell’attività alberghiera. E non perché tale attività sia priva del requisito dell’economicità, ma perché preordinata a conseguire utili dipoi destinati ad attività senz’altro non economiche. Si tratterebbe, insomma, per dirlo in “giuridichese”, di una forma di attività complessa, in seno alla quale la prima – quella alberghiera – rappresenta semplicemente uno strumento o un componente teso all’attuazione dell’ulteriore fase dell’attività, quella puramente altruistica o filantropica.
Ebbene, se fosse adottato questo criterio di “selezione” diverrebbe ragionevole chiedere alla libertà di mercato di cedere il passo alla soddisfazione degli interessi sociali ai quali si rivolge l’attività unitariamente considerata. Di conseguenza si potrebbero giustificare diversità di trattamento impositivo per gli enti in grado di dimostrare la funzione puramente servente dell’attività commerciale rispetto al soddisfacimento di interessi di rilevanza costituzionale.
Questo modo di affrontare il problema, al di là dell’I.C.I. e pure della qualificazione confessionale dell’ente, potrebbe orientare, come da tempo sostengo, l’intera legislazione del terzo settore. Per giungere a questo risultato, però, occorrerebbe che in Parlamento vi fosse quel che oggi non c’è: una rinnovata sensibilità e volontà intellettuale e politica. Ne potrebbero beneficiare in molti, non solo le donne e gli uomini che dai piedi della piramide sociale guardano impotenti il suo vertice traboccante, ma anche lo Stato che potrebbe finalmente realizzare un welfare più efficace ed efficiente.