Editoriali

IL REFERENDUM SUL TAGLIO DEI PARLAMENTARI: UN QUESITO SEMPLICE SOLO IN APPARENZA

a cura di Emanuele Rossi

16 Aprile 2020

Tra le scadenze che il decreto-legge n. 18 del 2020 ha rinviato, c’è anche quella relativa al referendum costituzionale che si sarebbe dovuto svolgere il 29 marzo. Ancora non è stata stabilita la data: l’art. 81 del decreto ha infatti allargato il termine entro il quale il Governo dovrà indire la nuova data (ora fissata al 22 settembre). Quando, prima di tale termine, il Governo deciderà di fissarlo, lo potrà fare in una data variabile tra i 50 e i 70 giorni dall’indizione. Quindi il termine massimo per lo svolgimento della consultazione è per i primi giorni di dicembre, ma è probabile che, se le cose si normalizzassero, si potrà essere chiamati alle urne nel prossimo autunno.

Non è facile in questi giorni parlare di cose diverse dal contagio che sta investendo l’Italia: però proviamoci. 

Il referendum in questione riguarda una proposta di legge costituzionale apparentemente semplice e di immediata percezione: con essa viene diminuito il numero dei parlamentari, portandolo dai 630 deputati attualmente previsti a 400, mentre gli attuali 315 senatori scenderebbero a 200. A ciò è aggiunta una piccola modifica dell’articolo relativo ai senatori a vita.

Le considerazioni che si possono svolgere in merito a tale riforma di due tipi: da un lato, con riguardo agli effetti concreti di tale misura; in secondo luogo relativamente al significato complessivo di essa sulla politica e sulla democrazia. Senza al momento alzare i toni né in un senso e né nell’altro: come invece potrà accadere quando – e soprattutto se – la campagna elettorale entrerà nel vivo.

Dal primo punto di vista: quali conseguenze?

La riduzione del numero dei parlamentari è stata motivata, da chi l’ha poi approvata, con due argomenti principali: la riduzione dei costi della politica e la maggior efficienza di funzionamento delle Camere.

Sul primo punto si è molto puntato e probabilmente molto si punterà nel dibattito pubblico. Personalmente il tema non mi convince per due ragioni: in primo luogo per l’esiguità del risparmio, in secondo luogo perché ritengo un errore porre la questione in questi termini. Mi spiego. 

L’esiguità del risparmio: secondo alcuni calcoli, il risparmio sul bilancio statale sarebbe di 37 milioni per la Camera e 20 milioni per il Senato, ovvero 57 milioni all’anno cioè 285 milioni a legislatura (assai meno, dunque, dei 500 milioni a legislatura propagandati da alcuni esponenti del Governo). In termini di bilancio dello Stato, significa un risparmio dello 0,007 sul totale: cui tra l’altro, si sarebbe potuti arrivare con altre strade (ad esempio, la riduzione dell’importo dell’indennità parlamentare o il superamento del calcolo forfettario per il rimborso delle spese legate all’espletamento del mandato, come suggerito da Andrea Marchetti). 

Secondo aspetto. Se anche si risparmiasse effettivamente, ritengo che i costi delle istituzioni non debbano esser considerati più importanti del corretto funzionamento delle istituzioni stesse. Al contrario, i costi per le istituzioni devono essere adeguati al loro corretto funzionamento: come per i diritti (e quello alla salute in particolare, come in questi giorni abbiamo capito). Teniamo conto che, alle ultime elezioni politiche, gli italiani hanno eletto un deputato ogni 96.000 abitanti: con la riforma arriveremo a un deputato ogni 151.000 abitanti. Per fare un confronto con gli altri Paesi europei, saremmo al livello più basso: avremmo infatti 0,7 deputati ogni 100.000 abitanti, al di sotto dello 0,8 della Spagna, dello 0,9 della Francia e della Germania per non dire di tutti gli altri. Vale la pena diminuire così drasticamente la rappresentanza – con ciò che essa significa per le persone, le comunità e i territori – per risparmiare lo 0,007 del bilancio statale? A mio parere, no.

Veniamo alla seconda motivazione. 

Nel dibattito parlamentare si è sostenuta la proposta di riduzione del numero dei parlamentari argomentando sulla base della necessità “di rendere il nostro bicameralismo meno rissoso e conflittuale e il procedimento legislativo più agile e spedito”, e quindi di “favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere”. Anche qui, due considerazioni.

La prima è che questa motivazione si rivela del tutto insincera: basti vedere la propaganda politica che sulla riforma è stata fatta (per ora poca, in verità, ma per ben altre ragioni) per avere chiaro che questo è un motivo cui non crede nessuno. In altra sede l’ho definito un indice di “ipocrisia costituzionale”.

La seconda considerazione è che, se anche tale argomento fosse sinceramente espresso, è del tutto indimostrato e indimostrabile l’effetto che si prospetta. In base a quali elementi di valutazione si può affermare che il sistema politico italiano sarebbe meno conflittuale e più efficiente se invece di 630 deputati ce ne fossero 400? Forse che la rissosità tra le forze politiche si misura su questi elementi e non, invece, su altri (il leaderismo esasperato, il populismo, la semplificazione degli slogan, ecc.)? Non amo fare comparazioni con altri Paesi, perché ogni Stato ha la sua storia e le sue caratteristiche: ma l’unico Paese che ha un numero di parlamentari inferiori al nostro (post-riforma) è la Spagna. E possiamo considerare quello spagnolo come un sistema “meno rissoso e conflittuale” e più efficiente del nostro, quando in un anno e mezzo si sono dovute svolgere tre elezioni politiche?

Non ho spazio per argomentare sull’altro punto: il significato “culturale” della riforma. Basti allora porre due domande: il taglio dei parlamentari aumenterà o diminuirà la considerazione popolare nei confronti dell’istituzione Parlamento? Aumenterà o ridurrà il sentimento populistico e anti-casta diffuso nel nostro Paese?  

Come si può capire, dietro un quesito apparentemente assai semplice si nascondono problemi di grande rilievo.