Commento

“IO OGGI INDOSSO IL BURKA. E TU?”. DONNE MUSULMANE TRA PREGIUDIZI E LIBERTÀ DI SCELTA NELL’ITALIA MULTICULTURALE

a cura di Chiara Lapi

16 Agosto 2019

Scrivere o pronunciare la parola «donne» evoca un concetto che emerge in modo più evidente di altri: quello di identità.

Da sempre, l’identità di genere si connette e si intreccia anche con il concetto di identità religiosa. Oggi, tuttavia, il tema del rapporto tra le due species del genus identità, quella di genere e quella religiosa, assume un significato di maggior rilievo rispetto al passato. Il mutato scenario sociale, sia in Europa che in Italia, vede infatti la presenza di donne che rivendicano il diritto di indossare indumenti a valenza religiosa, che sono, di fatto o solo in apparenza, in contrasto con i canoni occidentali.

Il tema si pone in modo particolare con riguardo alle donne musulmane o comunque provenienti da paesi a maggioranza islamica. La loro pretesa di muoversi nello spazio pubblico vestite con capi d’abbigliamento quali il burka, il niqab, o l’hijab costituisce una lente per leggere ed interpretare le complesse dinamiche del rapporto tra diritto alla libertà religiosa e diritto alla sicurezza. Due diritti che talvolta sembrano inconciliabili con il risultato che la garanzia dell’uno escluderebbe quella dell’altro.


Nel Corano, testo sacro dell’Islam, si invitano le donne «a lasciar scendere un velo fino sul petto e a coprirsi dei loro mantelli affinché si distinguano dalle altre e non vengano molestate». Non si tratta di un dovere imposto, di un obbligo religioso, ma di un mero consiglio rivolto alle persone di sesso femminile in funzione di una loro maggiore tutela, che va spiegata alla luce del periodo storico in cui il Corano venne scritto.

Anche il Comitato per l’Islam italiano ha affermato a chiare lettere, in un parere del 2010, che indossare questi indumenti non significa affatto adempiere ad un precetto religioso imposto dal Corano. Del resto, a riprova di ciò, va osservato che ci sono alcuni paesi musulmani, come il Marocco, dove il velo integrale è vietato.

Un determinato tipo di abbigliamento ha comunque un significato ed è l’espressione della volontà dell’individuo che lo indossa di mostrarsi in pubblico in un certo modo, piuttosto che in un altro. Se dunque il burka, il niqab e l’hijab non sono indumenti religiosi in senso stretto, essi costituiscono semmai dei marcatori identitari attraverso i quali la donna – rivelando solo le parti del corpo che desidera – esprime la sua femminilità e dimostra di essere diversa dal canone di donna occidentale. Ognuno di questi indumenti, poi, è un marcatore identitario a modo suo per cui la scelta di indossare l’uno piuttosto che l’altro traduce una diversa volontà. Infatti, mentre burka e niqab coprono completamente il corpo della donna lasciando intravedere gli occhi attraverso una retina fatta di stoffa o di crine di cavallo nel primo caso e lasciando scoperti del tutto gli occhi nel secondo, l’hijab è un velo che copre i capelli ed il collo lasciando scoperto il volto.

In Europa, molti stati hanno emanato leggi per vietare burka e niqab: la Francia nel 2010, il Belgio nel 2011, la Bulgaria nel 2016, la Svizzera, prima nel Canton Ticino (2016), poi nel Cantone San Gallo (2018), l’Austria e la Lettonia nel 2017, l’Olanda, la Danimarca e la Norvegia nel 2018. Tra questi, alcuni paesi prevedono il divieto per qualsiasi spazio pubblico, mentre altri solo nelle scuole o in istituzioni pubbliche. E’ degno di nota il fatto che la Francia sanzioni maggiormente chi costringe a portare il velo integrale rispetto a chi lo indossa, sulla base della supposizione che coprire il corpo ed il volto non sia il frutto di una scelta, bensì di una costrizione.


In Italia, al momento, non esiste una legge che si occupi di disciplinare l’uso del burka e del niqab, sebbene ormai da tempo alcune parti politiche spingano per l’adozione di un divieto netto e senza deroghe. La Lombardia, nel 2015, ha adottato una delibera che vieta l’uso di burka e niqab in ospedali e luoghi pubblici. Contro la delibera è stato proposto ricorso con l’intento di farla dichiarare «atto discriminatorio». Ma il Tribunale di Milano ha risposto che il divieto «è giustificato da una finalità legittima, … e proporzionata rispetto al valore della pubblica sicurezza, … ».


Come emerge da alcuni episodi di cronaca, nel nostro paese il dibattito ha assunto spesso toni parossistici, poiché si è svolto nel quasi totale oblio del quadro normativo costituzionale che auspicherebbe un bilanciamento ragionato degli interessi in gioco. Nel 2009, a Varallo Sesia (Vercelli), l’allora sindaco leghista vietò in tutte le piscine, lungo i torrenti ed i laghi del territorio del Comune l’uso del burkini, il costume da bagno che copre completamente il corpo, lasciando visibile l’ovale, con multe da 500 euro per i trasgressori. Nel 2018, durante un’udienza, un giudice del Tar di Bologna, ha intimato alla giovane avvocatessa Asmae Belfakir di togliersi l’hijab sostenendo che questo indumento non rispetterebbe «la nostra cultura e le nostre tradizioni».

Tra gli interessi in gioco, c’è, senza dubbio, la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, garantita dalla necessità di rendere riconoscibile la persona, ma anche il principio di uguaglianza tra maschi e femmine, quello di non discriminazione su base religiosa (art. 3 Cost.) ed infine, il diritto di libertà religiosa. Quest’ultimo, garantito dall’art. 19 Cost., che contempla, tra gli altri, il diritto di indossare abbigliamenti confacenti al proprio credo o comunque alla propria tradizione, costituisce una bussola di orientamento nelle acque – tempestose, di fatto o strumentalmente, – della società multiculturale.

Mentre i legislatori, i giudici e l’opinione pubblica si affannano nelle anguste logiche dei divieti, rifuggendo un approccio sereno e dialogico a questioni che, seppur complesse, meriterebbero di essere gestite con metodi capaci di ascoltare tutte le parti in gioco alla ricerca di un punto di equilibrio, il commercio internazionale persegue i propri obiettivi di profitto sfruttando al massimo le potenzialità degli indumenti islamici.


Il marchio di moda Donna Karan ha lanciato la Ramadan Collection, seguita da altre case di fama mondiale come Oscar De La Renta, Valentino e Prada che hanno realizzato hijab con tessuti pregiati e pietre da abbinare all’abayas, il lungo camice indossato dalle donne musulmane. Inoltre, la Nike si è fatta promotrice della campagna Nike Pro Hijab studiando e brevettando hijab di materiale tecnico, morbido e traspirante, per le sportive musulmane.