Commento

LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA DEL 5 LUGLIO 2021: LA LIBERTÀ INDIVIDUALE SOCCOMBE AL PRINCIPIO DI NEUTRALITÀ

a cura di Chiara Lapi

28 Febbraio 2022

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (di seguito CGUE) del 15 luglio 2021 si inscrive nell’ambito di un tema di rilevante importanza per quanto attiene all’esercizio dei diritti di libertà individuale e di particolare attualità e interesse sotto il profilo politico e sociale: indossare un abbigliamento culturalmente e – religiosamente – orientato nei luoghi di lavoro.

La sentenza decide in merito a due cause, provenienti entrambe da Tribunali tedeschi, riunite di fronte alla stessa CGUE, che riguardano due controversie nate tra un datore di lavoro e un dipendente che pretendeva di indossare un determinato abbigliamento, non gradito al primo e addirittura da lui vietato.

Specificatamente, la prima causa vede opporsi una donna, che svolge la professione di educatrice specializzata per l’infanzia, alla società tedesca che l’ha assunta, di nome Wabe, che gestisce un numero cospicuo di asili nido dove sono impiegati seicento lavoratori e che accolgono tremilacinquecento bambini. La Wabe persegue una precisa mission aziendale consistente nell’offrire agli infanti una formazione educativa ampia basata sul confronto tra i differenti orientamenti culturali e religiosi, consentendo anche loro di organizzare, durante l’anno scolastico, feste a carattere religioso.

Conformemente alla mission perseguita, la Wabe ha ritenuto corretto vincolare i propri dipendenti che abbiano contatti diretti con gli alunni, come gli insegnanti, al rispetto del principio di neutralità che si esplica nella concreta osservanza di tre obblighi all’interno del luogo di lavoro. Questi consistono: a)- nel divieto di esprimere le proprie convinzioni politiche, religiose e personali; b)- nel divieto di indossare segni visibili delle convinzioni sopra indicate; c)- nel divieto di compiere riti associati a tali convinzioni. In particolare, rispetto al secondo divieto, la Wabe ha espressamente stabilito, nell’ambito di una nota esplicativa del principio di neutralità, che “il crocifisso cristiano, il velo musulmano e la kippah ebraica non possono essere indossati perché i bambini non devono essere influenzati dagli educatori per quanto riguarda la religione”.

L’educatrice è solita presentarsi al lavoro in uno degli asili gestiti dalla Wabe con il velo islamico e, nonostante le ripetute ammonizioni della società che la invitano a togliersi l’indumento, la donna persiste nel proprio comportamento e, convinta delle proprie ragioni, ricorre al giudice tedesco chiedendogli di condannare la società a eliminare dal suo fascicolo personale le ammonizioni suddette.

I fatti appena narrati si inquadrano in un contesto giuridico ben preciso di cui occorre dare conto. L’educatrice lamenta, di fronte al giudice tedesco, il fatto che la società datrice di lavoro, proibendole di indossare il velo islamico, abbia posto in essere una “discriminazione diretta”, fattispecie giuridica prevista dalla Direttiva 2000/78 CE1 che contiene norme preposte alla garanzia della “parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”.

L’altra causa che giunge all’esame della CGUE concerne una situazione piuttosto simile alla prima: riguarda infatti una donna che lavora come consulente di vendita e cassiera di un’azienda tedesca che è solita indossare il velo islamico. Di fronte alle ripetute ingiunzioni dell’azienda di presentarsi sul luogo di lavoro senza l’accessorio, la dipendente presenta ricorso al giudice nazionale tedesco per far dichiarare l’invalidità di tali ingiunzioni sostenendo che queste violano la propria libertà di religione. L’impresa, dal canto suo, oppone la presenza di un divieto interno relativo all’uso di “segni vistosi e di grandi dimensioni di natura religiosa, politica o filosofica”, introdotto per preservare una mission aziendale fondata sul principio di neutralità.

In questo caso, i giudici del Tribunale tedesco mettono in evidenza che tale direttiva interna dell’azienda può costituire una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b) della Direttiva 2000/782.

I giudici nazionali che si occupano dei due casi in oggetto rimettono dunque alla CGUE i quesiti relativi all’interpretazione della nozione di “discriminazione diretta” e “discriminazione indiretta”. La CGUE risponde ai quesiti affermando che, innanzitutto, il divieto di indossare segni di natura politica, religiosa o filosofica non costituisce di per sé una violazione del divieto di discriminazione diretta fondata sulla religione o le opinioni personali ai sensi della direttiva 2000/78/CE, sempre che tale divieto sia applicato in maniera generale e indiscriminata. In secondo luogo, la discriminazione indiretta derivante da tale divieto può essere giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una gestione fondata sulla neutralità politica, filosofica e religiosa nei confronti dei clienti o degli utenti. Il datore di lavoro dovrà comunque dimostrare che tale politica risponde ad un’esigenza reale in considerazione delle aspettative legittime di utenti o clienti e degli effetti negativi che deriverebbero all’impresa dalla mancata applicazione di tale gestione.

Per cui, concludendo si può affermare che la libertà religiosa individuale che si esprime anche attraverso la scelta di indossare determinati capi d’abbigliamento che richiamano espressamente l’appartenenza a una determinata credenza o, in senso più largo, a un determinato contesto culturale, può soccombere di fronte alle necessità di tutelare la libertà d’impresa che comprende, senza alcun dubbio, il diritto di sancire politiche aziendali fondate sulla neutralità del comportamento dei lavoratori dipendenti, a patto che ciò non comporti una discriminazione contro il singolo individuo.


\ “CE” significa Comunità Europea. Nel 2000, quando la Direttiva in oggetto venne emanata, l’istituzione si chiamava “Comunità Europea”. Tale istituzione, oggi, è denominata Unione Europea. In base all’art. 2, paragrafo 2, lettera a, della Direttiva 2000/78/CE, sussiste “discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1 (religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali), una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.

2 Sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura […] rispetto ad altre persone […].