LA RIFORMA DEL DIRITTO DELLA CRISI DELL’IMPRESA AL TEMPO DELL’EPIDEMIA COVID-19
a cura di Claudio Cecchella
16 Agosto 2020
1. Legislazione di emergenza o ennesima riforma
L’intervento governativo, sulla disciplina dell’insolvenza e della crisi dell’impresa, ha il sapore di una normativa che trova occasione solo apparentemente nella congiuntura, sulla scia degli interventi che si sono susseguiti con cadenza annuale nell’ultimo decennio, particolarmente negli ultimi cinque anni, destinati a modificare sensibilmente l’impianto della riforma, che aveva contraddistinto le novelle degli anni 2005, 2006 e 2007.
I decreti legge succedutisi dal mese di marzo, in coincidenza con l’epidemia virale, oltre ad introdurre alcune modifiche di grande rilievo nell’ambito processual-civilistico comune, nella espressione del d.l. 8 aprile n. 23 del 2020, intervengono in modo non meno significativo in quello processual-concorsuale.
In primo luogo (art. 5 d.l. cit.) con il (significativo) rinvio di oltre un anno della entrata in vigore della riforma del 2019 (il quale vivrà, pertanto, una vacatio legis che supera i due anni), sinistro destino della recentissima riforma generale
In secondo luogo, aprendo la prospettiva di una modifica dei piani di concordato o di accordo di ristrutturazione, sui loro contenuti in genere o, più limitatamente, sui termini in essi stabiliti per il pagamento dei creditori, oppure, quando il piano non è ancora approvato o omologato, con la concessione di un termine per la sua elaborazione, alla luce del mutato quadro legislativo (art. 9).
In terzo luogo, chiudendo in rito le domande pendenti per la dichiarazione di fallimento (art. 10).
Infine, sospendendo l’applicazione di alcune norme di garanzia per i creditori delle società di capitali, costituite dalla tutela dell’effettività del capitale sociale e dalle misure per la sua reintegrazione in caso di perdite, dalla postergazione dei crediti per finanziamenti dei soci e da un’attenuazione degli oneri a carico degli amministratori, nella stesura del bilancio relativo all’anno 2020, in ordine alla enunciazione dei presupposti per la continuità dell’esercizio dell’impresa (artt. 6, 7 e 8).
2. La ratio della riforma
Il decreto, che costituisce ormai l’unica fonte privilegiata dello Stato, coglie nell’emergenza sanitaria e nella conseguente ricaduta economica, dovuta alla paralisi di tutte le attività imprenditoriali per un tempo indeterminato, la ratio dell’intervento.
Ad una lettura meno superficiale, non è solo questa la ragione che ispira l’esecutivo sul piano oggettivo e sistematico, in rapporto soprattutto alla riforma del 2019.
La crisi economica, esito certo delle misure governative di paralisi delle attività sociali ed economiche, che comporta, da un lato, la soppressione della domanda (concentrata solo sui generi alimentari) e, dall’altro, quella dell’offerta (con la chiusura delle imprese commerciali e industriali), si proporrà, in tutta la sua dimensione devastante, probabilmente quando tutti i termini saranno scaduti e, quasi per ironia, quando entrerà in vigore il codice della crisi del 2019. L’intervento sul breve termine e non sul medio lungo, ha questo sapore.
La gravissima crisi avrebbe dovuto indurre, sul piano razionale, a distinguere tra le imprese che effettivamente dall’epidemia hanno subito una soluzione di continuità nell’attività (fattore esclusivo della crisi, se non addirittura dell’insolvenza), dalle imprese che la crisi avevano già subito per fattori anteriori, o comunque estranei all’epidemia, le quali, pertanto, avrebbero dovuto essere condotte, coerentemente, alle procedure concorsuali e, in particolare, alla loro liquidazione, secondo la diversa esperienza del diritto comparato.
Invece, si è adottato un indiscriminato esonero dalla disciplina sulla liquidazione fallimentare, in una logica conservativa, contro ogni regola economica applicabile all’impresa insolvente. La stessa logica conservativa che ha condotto il legislatore ad escludere dalla normativa del codice della crisi, ed in particolare dagli istituti dell’allerta e della composizione della crisi, la grande impresa e la impresa di rilevanti dimensioni.
Si manifesta, così, una ratio irrazionalmente conservativa e fine a se stessa; quanto di più lontano dai principi del codice della crisi, che fonda le sue basi su di una seria valutazione intorno alla opportunità della continuità dell’impresa, nell’interesse dei creditori, attraverso la diversa consapevolezza indotta all’imprenditore costretto a nuovi modelli organizzativi; gli strumenti di allarme e composizione della crisi; il processo unitario di accertamento della fattispecie che privilegia la domanda per una soluzione negoziale che assicuri la continuità, in cui l’elemento del beneficio per i creditori appare il corretto criterio di discrimine.
Se quella governativa fosse una scelta consapevole (le continue oscillazioni, nel corso dei decreti legge che si sono susseguiti, fanno pensare ad un progetto incerto che varia a seconda dei risultati delle sue concrete sperimentazioni), si tratterebbe di una scelta che ha l’epidemia, ed i suoi effetti economici, sullo sfondo, e che lascia sinistri presagi sul rinvio del codice della crisi.
Ispiratrice di essa è al contrario il criterio “assistenziale” privo di basi razionali ed obiettive (che si ritrova, per esempio, nel “reddito di cittadinanza”, predicato ed attuato da una delle componenti della maggioranza governativa, indiscriminatamente offerto a chiunque), fattore di freno dello sviluppo e di stimoli al lavoro.
Le misure saranno (si auspica) risolutive nel superamento dell’epidemia virale sul piano sanitario, ma sono certamente controproducenti per contenere quel virus economico, che è l’insolvenza, e la sua forte capacità di diffusione sul mercato, trascinando nella sua propagazione tutto il sistema economico, in pregiudizio, non solo degli imprenditori colpiti dalla soluzione dell’esercizio continuativo dovuto alle misure di ordine pubblico, ma anche e soprattutto dei creditori.
I creditori saranno colpiti mortalmente da una continuità non fondata su reali possibilità di ripresa, per essere l’insolvenza in taluni casi dovuta a fattori estranei.
Essi potranno, certamente, interloquire a fronte di un mutamento dei contenuti del piano concordatario o dell’accordo, ma non potranno interloquire se il mutamento riguarda solo i termini di pagamento (mutamento dettato dalla legge o dalla volontà dell’imprenditore proponente); non potranno interloquire a fronte dell’improcedibilità della domanda fallimentare, ancorché questa sia unita ad un’istanza cautelare (discriminati, qui, rispetto al p.m., che, per la stessa ragione, può ottenere la prosecuzione del procedimento dichiarativo dell’insolvenza) e subiranno, per lungo tempo, l’esonero dell’imprenditore sociale dalle regole basilari a tutela del credito, come la conservazione del capitale sociale, la postergazione dei finanziamenti dei soci, la trasparenza del bilancio sulle ragioni degli amministratori per una continuità di esercizio (a cui i bilanci del 2020 risponderanno con un mero rinvio alle risultanze del 2019).
Ma vi è un più subdolo destino di imprenditori e creditori, che è quello di una loro metamorfosi nello Stato. Nuovo leviatano economico, nell’offrire agli imprenditori assetati di liquidità le garanzie necessarie, direttamente, o indirettamente (“SACE”), come sempre accade – basta avere un minimo di esperienza dell’insolvenza, che conduce i creditori a diventare i veri proprietari del capitale di rischio – lo Stato diventerà il titolare dell’economia nazionale ed interlocutore principale, se non esclusivo, delle procedure. Ciò per l’indiscriminato accesso al credito disciplinato dallo stesso decreto c.d. liquidità, non essendo dato al mondo bancario il potere di filtrare le richieste diffuse, sulla base della concreta e sicura possibilità di rientro, grazie alle garanzie offerte dallo Stato, ed essendo tutto rimesso all’autoresponsabilità dell’imprenditore. Un serio controllo operato dai finanziatori dovrebbe se del caso, indurre a negare il credito, laddove al contrario il legislatore non discrimina tra imprese sane, ma in difficoltà per la paralisi economica, e imprese ammalate da tempo, comunque destinate alla liquidazione. Viceversa, anche queste ultime potranno ricorrere al finanziamento del circolante, con conseguente accanimento terapeutico, devastazione del virus dell’insolvenza e cure palliative, complice lo Stato.
Alla fine, lo Stato sarà proprietario dell’economia, com’è accaduto nel caso di una delle maggiori banche private (il Monte dei Paschi) avviata, se non saranno prese contromisure, al default sotto il controllo dell’Unione europea.
Lo strumento giusto avrebbe dovuto essere, invece, quello del finanziamento straordinario a carico dello Stato e a fondo perduto, con sgravi fiscali, soggetto tuttavia alla condizione di una valutazione positiva sul reale rilievo dell’epidemia nella crisi della singola impresa.
Il vuoto slogan “andrà tutto bene”, senza serie premesse ed elevato a principio di diritto, si traduce in un irresponsabile rinvio della terapia, quando la malattia sarà veramente incurabile.
Insomma: una Caporetto sull’Isonzo a cui difficilmente seguirà una linea del Piave. Cadorna impera e Diaz ancora non si vede all’orizzonte politico italiano.