GOVERNO COLLABORATIVO DEI BENI COMUNI
a cura di Redazione Ogl Toscana
16 Dicembre 2020
Legge regionale
In data 07.07.2020 è stata approvata dal Consiglio Regionale della Toscana la l.r. n. 71/2020 in tema di “Governo collaborativo dei beni comuni e del territorio, per la promozione della sussidiarietà sociale in attuazione degli articoli 4, 58 e 59 dello Statuto”, discendente dalla pdlr n. 448/2020.
Questa legge, senza dubbio, si pone in linea con l’idea e l’attenzione che la Regione Toscana dedica alle politiche pubbliche inclusive ed in particolare al tema della gestione condivisa e della fruizione dei beni comuni da parte della società civile.
Questa legge costituisce anche il primo intervento normativo con cui si è cercato di dare un seguito alla modifica che, nel 2018, è stata apportata allo Statuto della Regione Toscana e che ha inserito tra le principali finalità regionali quella della tutela e della valorizzazione dei beni comuni1.
Prima di passare ad esaminare le singole disposizioni della legge n. 71/2020, è utile conoscere non soltanto come nasce il concetto di “bene comune” ma anche comprendere, nei limiti di questa breve analisi, che cosa si intenda con detto termine e quale sia stata la sua evoluzione all’interno del nostro ordinamento.
Giova premettere che il concetto di “bene comune” è tutt’oggi molto astratto poiché come vedremo a breve, la definizione a cui si fa riferimento, elaborata dalla Commissione Rodotà, risulta essere una nozione “aperta” quindi non riconducibile ad un elenco puntuale ed esaustivo di beni ma destinata a modificarsi e diversificarsi di pari passi con l’evolversi delle nostre società.
Procediamo con ordine ed iniziamo col dire che, a partire dai primi anni del 2000, si iniziò a prestare attenzione al tema del patrimonio delle amministrazioni pubbliche: infatti, nel 2003 fu proprio il Ministero dell’Economia e delle Finanze ad avviare un primo gruppo di studio per la “costruzione di un conto patrimoniale delle Amministrazioni Pubbliche” il quale evidenziò, tra le altre cose, una consistente attività di dismissione di beni e servizi effettuate dallo Stato a partire dagli anni ’90. Detta analisi rilevò, inoltre, la presenza di un quadro giuridico poco chiaro che non consentiva l’individuazione di precise regole in tema di gestione e di dismissione dei beni pubblici e che soprattutto non riconosceva alcun tipo di relazione tra la dismissione di detti beni e l’interesse della collettività.
In ragione di ciò, si arrivò ad affermare la sussistenza di “un vero e proprio squilibrio di ordine istituzionale e costituzionale, con riguardo alle forme di tutela delle proprietà” poiché “se nel trasferimento di beni dal settore privato al settore pubblico il soggetto privato è tutelato – tramite le regole in materia di espropriazione per pubblica utilità – da procedure chiare e da precisi criteri di quantificazione dell’indennizzo, scarse o nulle sono le tutele predisposte a favore della collettività, laddove decisioni di sdemanializzazione e/o di privatizzazione determinino la sottrazione di un bene all’uso pubblico o il trasferimento di esso dal settore pubblico al settore privato”2.
I risultati nonché le riflessioni viste poc’anzi vennero riprese e presentate nel 2006 durante una giornata di studio presso l’Accademia Nazionale dei Lincei. In questa occasione si auspicò, tra le altre cose, la necessità di metter mano alla disciplina dei beni pubblici contenuta nel Codice Civile poiché essa, rimasta immutata dal 1942, risultava obsoleta e non in linea con le esigenze di una gestione più chiara ed efficiente del patrimonio pubblico.
Sotto questo profilo, nel 2007, il Ministero della Giustizia istituì una Commissione, presieduta da Stefano Rodotà, con il compito di elaborare e redigere uno schema di legge delega per la riforma delle disposizioni del Codice Civile in tema di beni pubblici.
Tra i principi direttivi posti alla base del progetto di legge delega assume rilievo l’intento di procedere ad una riorganizzazione della tassonomia dei beni presenti nel Codice Civile, mediante non soltanto l’introduzione della categoria dei beni comuni ma anche una ridefinizione del concetto di bene pubblico3.
La nozione di bene comune che viene elaborata dalla Commissione Rodotà riconduce detti beni alle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissate dalla legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe. Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive (..) i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate (..)”4.
Il disegno di legge delega non ha mai visto la luce, tuttavia il lavoro della Commissione Rodotà ha avuto il pregio di aver delineato i caratteri principali dei beni comuni, dando vita ad una definizione che, come vedremo nel proseguo, sarà ripresa ed utilizzata negli anni successivi, mantenendo l’interesse e il dibattito su questo tema sempre vivo.
In mancanza di una strutturale riforma della disciplina codicistica, la categoria dei beni comuni, negli anni seguenti, ha avuto numerosi riconoscimenti da parte dell’opinione pubblica, della giurisprudenza e delle amministrazioni regionali e locali: al riguardo, si richiamano alla mente alcuni momenti che hanno visto come protagonisti questa particolare categoria di beni.
La campagna referendaria del 20115 ha portato il concetto di bene comune al centro del dibattito pubblico, diventando il simbolo della lotta alla privatizzazione dell’acqua. In realtà, il referendum – nello specifico, due dei quattro quesiti che lo componevano – non aveva ad oggetto la privatizzazione del “bene acqua” quanto piuttosto la privatizzazione dei servizi comunali di gestione e distribuzione della stessa e le tariffe da applicare ma, in ogni caso, esso costituì un’occasione per continuare a tenere alta l’attenzione sul concetto di bene comune.
L’evoluzione che ha interessato questi beni passa anche attraverso alcune vicende giurisprudenziali che hanno consentito a questa particolare categoria di beni di fare un graduale ingresso nel diritto vivente italiano.
Tra le varie sentenze, merita un richiamo la n. 3665/2011 con cui le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno qualificato come beni comuni le valli da pesca della laguna di Venezia, affermando che “(..) là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, ‘comune’ vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini (..)”.
Questo principio affonda le sue radici su un ragionamento che la Corte realizza attraverso non soltanto una lettura combinata degli artt. 2, 9 e 42 Cost ma anche riprendendo e valorizzando il concetto di “Stato-collettività”.
L’assenza di una disciplina legislativa ad hoc non ha impedito la nascita di forme di amministrazione condivisa tra pubblica amministrazione e cittadini, le quali hanno trovato nelle realtà comunali un ottimo terrene nel quale sperimentare e svilupparsi. Infatti, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, molti Comuni italiani, negli ultimi anni, hanno predisposto regolamenti diretti a disciplinare le forme di cura e gestione condivisa dei c.d. beni comuni urbani. Tra queste realtà locali merita esplicita menzione il Comune di Bologna, il quale, avendo svolto un ruolo di apripista, ha predisposto un modello di Regolamento di gestione di detti beni6 che è stato, poi, preso come modello in tutta Italia.
Andiamo adesso ad esaminare le singole disposizioni della l.r. n. 71/2020, la quale si compone di tredici articoli suddivisi in quattro Capi, in particolare:
- Capo I – Disposizioni generali. L’art. 1 contiene un espresso e puntuale richiamo dei principi costituzionali7 e regionali8 posti a fondamento della presente legge mentre il successivo articolo 2 è dedicato alle definizioni dei concetti più rilevanti ai fini della comprensione e dell’interpretazione della medesima. Al riguardo, preme soffermarci sulla definizione di bene comune, la quale, partendo dal concetto base elaborato nel 2007 dalla Commissione Rodotà, tende a specificare un ulteriore elemento caratterizzante questa categoria di beni9. L’art. 3, poi, fissa alcune regole di principio in base alle quali troverà attuazione la presente legge, tra queste assume particolare rilievo l’adozione di regolamenti da parte di enti regionali e locali, diretti a stabilire le procedure ed i criteri con cui verranno predisposte ed organizzate le attività di cura e gestione condivisa dei beni comuni. La disposizione, inoltre, precisa alcuni aspetti di dette attività con l’intento di rendere più chiaro l’ambito di operatività del governo collaborativo dei beni comuni, tra cui: – gli interventi di cura, gestione collaborativa o rigenerazione dei beni comuni non si sostituiranno ai servizi essenziali garantiti dalla P.A.; – i soggetti di natura imprenditoriale, se coinvolti nelle attività di cura, gestione e rigenerazione dei beni comuni, non trarranno vantaggi economici diretti o indiretti; – le attività di cura, gestione e rigenerazione, inoltre, non sostituiranno le attività lavorative e le professionalità delle persone che operano nei settori tradizionali e rispetteranno la normativa in materia di sicurezza sul lavoro. L’art. 4 contiene una puntuale elencazione dei criteri in base ai quali dovrà essere costruita la collaborazione tra cittadini attivi, enti regionali, enti locali e altri soggetti privati, tra cui si rammentano i criteri di semplicità, cooperazione e inclusività, pari opportunità, sostenibilità etc. L’art. 5, dedicato ai “cittadini attivi” intesi sia come singoli che come formazioni sociali, evidenzia il ruolo attivo che essi possono ricoprire in questo ambito medianti la promozione di azioni quali: – proposte ed iniziative per il governo dei beni comuni (lett. a); – istanze rivolte ad enti regionali o locali per la segnalazione di omissioni o inerzie nella gestione dei predetti beni (lett. b); – messa a disposizione di propri beni per l’interesse della collettività (lett. c). Infine, chiude il Capo I, l’art. 6 il quale, preso atto che lo stato di abbandono in cui versano alcuni beni costituisce un “ostacolo alla realizzazione di equi rapporti sociali e alla riproduzione del patrimonio territoriale”, propone la costituzione di una banca dati pubblica dei beni comuni. prevendendo, al comma 3, precise tempistiche per la sua realizzazione.
- Capo II – Promozione dell’autonomia civica. L’art. 7 è dedicato al Regolamento regionale – già richiamato dal precedente articolo 3 – il quale costituisce lo strumento mediante il quale si dovranno fissare le procedure ed i criteri con cui, in concreto, troverà attuazione la presente legge: in particolare, detto articolo contiene una precisa elencazione degli elementi che dovrà presentare il Regolamento. La disposizione precisa, inoltre, che quest’ultimo dovrà essere adottato dalla Regione entro centoventi giorni dall’entrata in vigore della presente legge. L’art. 8, rubricato “patti di collaborazione” definisce, in primis, che cosa si intenda con detto termine ossia “l’accordo con il quale i cittadini attivi, i proprietari dei beni comuni e gli enti pubblici organizzano, in maniera cooperativa e senza fini di lucro, gli interessi relativi alle utilità generate dal bene comune, programmando e progettando insieme le attività di cura, gestione collaborativa e rigenerazione (..)”. Dopodiché, il comma 3 passa ad individuare gli elementi che dovranno essere definiti dai soggetti sottoscrittori del patto, tra cui gli obiettivi da perseguire, la durata della collaborazione, le modalità di azione, i reciproci impegni etc. La disposizione, infine, dispone che il patto di collaborazione viene concluso ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis l. 241/199010, precisando che, qualora esso abbia ad oggetto “interventi di rigenerazione che comportano attività di recupero del bene ad opera di cittadini” dovrà essere stipulato per il tramite di un ente del Terzo settore in grado di assumersi i relativi obblighi in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Chiude questa sezione l’art. 9, il quale, al fine di implementare l’efficacia della banca dati, di cui al precedente articolo 6, pone a carico degli enti locali l’onere di trasmettere all’amministrazione regionale “gli atti adottati o stipulati inerenti alla cura, gestione e rigenerazione dei beni comuni materiali e immateriali”.
- Capo III – Forme di sostegno al governo collaborativo dei beni comuni. L’art. 10 riconosce alla Regione e agli enti locali la possibilità di prevedere, in materia di tributi ed imposte di competenza, esenzioni ed agevolazioni a favore dei “cittadini attivi” sottoscrittori di patti di collaborazione. L’art. 11, inoltre, pone a carico della Regione, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge, l’organizzazione di un incontro pubblico tra “cittadini attivi” ed enti pubblici sottoscrittori dei patti con l’intento di confrontare le varie esperienze maturate, verificarne gli effetti, comprenderne le criticità ed eventualmente intervenire per migliorare questo strumento.
Capo IV – Norme finali. L’art. 12 fissa, in prima battuta, un termine di tre mesi – decorrenti dall’entrata in vigore della presente legge – entro cui gli enti locali, che hanno esperienze di cure e gestione dei beni comuni già avviate, dovranno adeguarsi alla normativa regionale in materia mediante la predisposizione di patti di collaborazione ex novo oppure adeguando quelli già esistenti. Il comma 3 dispone, inoltre, che gli enti locali privi di un proprio Regolamento in questa materia possono decidere di applicare il Regolamento regionale. A chiusura della sezione troviamo una disposizione finanziaria (art. 13) diretta a precisare che la presente legge non comporta oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale.
1 Il 01.08.2018 è stata approvata la modifica dello Statuto della Regione Toscana che vede, tramite l’introduzione della lett. m-bis al comma 1 dell’art. 4, l’inserimento tra le finalità regionali “la tutela e la valorizzazione dei beni comuni, intesi quali beni materiali, immateriali e digitali che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo, alla coesione sociale e alla vita delle generazioni future e la promozione di forme diffuse di partecipazione nella gestione condivisa e nella fruizione dei medesimi”. La formulazione poc’anzi riportata riprende la definizione di bene comune elaborata dalla Commissione Rodotà.
2 R.A. Albenese, E. Michelazzo, “Manuale di diritto dei beni comuni urbani” Celide, 2020, pagg. 30 ss.
3 In relazione alla categoria dei beni pubblici, la Commissione Rodotà propose la sostituzione dei regimi di demanialità e patrimonialità con tre nuove categorie ossia beni ad appartenenza pubblica necessaria, beni pubblici sociali e beni pubblici fruttiferi.
4 Possiamo rinvenire all’interno dell’art. 1, par. 3 lett. c) della proposta di legge delega.
5 Il riferimento è al referendum del 2011 sulla c.d. “privatizzazione dell’acqua” che aveva chiamato gli italiani ad esprimersi, tra le altre cose, in tema di tariffe sull’acqua e di privatizzazione dei servizi pubblici locali, in particolare di quelli idrici. Questi due requisiti, alla cui stesura avevano partecipato anche alcuni componenti della Commissione Rodotà, ben si inserivano nel concetto di bene comune avviata proprio da quest’ultima commissione poiché alla base degli stessi vi era l’idea che i beni comuni – nel caso specifico l’acqua – fossero beni da tutelare contro i processi di privatizzazione che, seguendo le logiche del guadagno, non forniscono garanzie di tutela dell’interesse collettivo.
6 Il Regolamento per la gestione dei beni comuni urbani predisposto dal Comune di Bologna nel 2004, con il contributo dell’associazione Labsuss, riprende la nozione di bene comune elaborata dalla Commissione Rodotà.
7 Il riferimento è agli artt. 1, 2, 3 comma 2, 4, 9, 18, 43, 45 e 118 comma 4 Costituzione.
8 Il riferimento è agli artt. 4, comma 1, lett.m-bis, 58 e 59 Statuto Regione Toscana.
9 In particolare, la seconda parte dell’art. 2, comma 1 lett. a conclude la definizione di beni comuni affermando che si tratta di beni “(..) per i quali i cittadini si attivano per garantirne e migliorarne la fruizione collettiva e condividere con l’amministrazione le responsabilità della loro cura, gestione condivisa e rigenerazione”.
10 Il comma richiamato stabilisce che “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.