Editoriali

IL CYBERBULLISMO

a cura di Maria Cristina Cavallaro

16 Giugno 2019

Con il termine cyberbullismo (coniato per la prima volta dall’educatore canadese Bill Belsey nel 2002), ripreso in ambito giornalistico e televisivo, si identifica il complesso delle condotte connotate da intento di provocazione, molestia, violenza fisica e verbale, che transitano sui mezzi in uso nella comunicazione virtuale: la rete internet, i social network, le e – mail, la telefonia cellulare.

La casistica offerta dalla cronaca propone molteplici tipologie di atti di cyberbullismo riconducibili a foto, video ed altro materiale formato da maschi e femmine in giovane (o giovanissima) età, i quali pubblicano foto o video di loro coetanei o compagni di scuola o altro ancora, ritratti in atteggiamenti o situazioni, non necessariamente spontanee, ma, anzi, spesso anche volutamente indotte, tutte accomunate dal fatto di generare ai loro danni un feedback sociale umiliante, tendenzialmente irreversibile anche perché veicolato dalla rete, i cui contenuti, una volta diffusi, restano sostanzialmente irrecuperabili, oltre che diretti ad un pubblico indeterminato.

Rispetto alle conseguenze sul vissuto delle giovani vittime di cyberbullismo occorre distinguere tra le, generali e non meglio determinate, conseguenze psicosociologiche e gli effetti sulla salute psichica.

Sotto il primo profilo si  può senz’altro ragionevolmente fare riferimento a stati di ansia, depressione e perdita del senso di autostima, quale reazione alla pubblica umiliazione prodotta dalla diffusione di contenuti umilianti.

Più gravi ancora, tra i processi mentali attivati da comportamenti posti in atto dai cyberbulli, sono quelli che si cronicizzano sino a livelli di gravità tale al punto da portare sino anche al suicidio.

Tra questi due livelli di disagio non esiste, intuitivamente, una rigida separazione, risultando determinante un approccio di attenzione ed eventualmente di intervento terapeutico, funzionali ad un adeguato supporto alle vittime e ciò sul presupposto che gli atti di bullismo esercitati con mezzi tecnologici, che ne amplificano in modo tendenzialmente incontrollabile i contenuti, creano una relazione di potere, pesantemente sbilanciato a danno della vittima di quegli atti. E’ opportuna, quindi, la considerazione dei fattori di rischio atti a favorire l’insorgenza di un disturbo psicologico anche grave, distinguendo la prospettiva della vittima da quella dell’aggressore. 

Sotto il primo profilo i rischi si possono esemplificativamente indicare nella prudenza smodata ed immotivata, in una sensibilità fortemente accentuata unita ad una bassa autostima, ma anche in una condizione di debolezza sul piano fisico, il tutto in un quadro di atteggiamento di rifiuto della violenza psichica e fisica che si presta sovente anche a distorte interpretazioni come ad esempio quella che attribuisce alla vittima una sostanziale incapacità di difendersi dai comportamenti bullizzanti; in tutto questo è agevole notare come il fattore di rischio, associato al feedback sociale, se non adeguatamente presidiato da tutti i soggetti coinvolti in una condizione di prossimità con la vittima, possono generare anche le gravi conseguenze segnalate.

Sotto il secondo profilo, invece, il bullo vive in una condizione di sostanziale delirio di onnipotenza che lo isola dall’ambiente esterno, sia sotto il profilo affettivo ed emotivo, risultando un soggetto generalmente privo della capacità di un agire empatico, sia sotto il profilo sociale, dal momento che questa condizione impedisce al bullo di sentirsi responsabile del proprio comportamento. 

A tutto ciò deve anche aggiungersi il fatto che, nell’ambito del gruppo, in cui il bullo si esprime, non si attivano reazioni a favore della vittima né contro il bullo stesso, per ragioni direttamente legate all’atto di bullismo, ossia il timore di ritorsioni da parte del bullo, o per la scarsa considerazione verso la vittima, spesso già di per sé poco inserita nel gruppo, perché ad esempio, oggetto di una atteggiamento razzista  o afflitta da handicap o comunque da qualche condizione invalidante, bersaglio elettivo della condotta bullizzante.

Infine il sistema delle relazioni familiari è tutt’altro che impermeabile a tutto questo, sviluppando atteggiamenti di eccessiva tendenza a proteggere, quando al suo interno si trovi la vittima, oppure predisponendo ad un comportamento al quale il bullo si sente incoraggiato da un clima di forte squilibrio educativo, con poche regole, spesso deboli e incoerenti, in un generale contesto smodatamente permissivo o eccessivamente coercitivo.

L’ansia, la depressione, oppure la rabbia, la vergogna o il senso di colpa , se procurate da atti di cyberbullismo possono risultare molto intense e, se considerate in rapporto alla persistente diffusione dei contenuti stressogeni, anche particolarmente durature.

Si può intervenire a livello terapeutico tenendo in considerazione un trattamento multilivello che combini  insieme approcci psicologici focalizzati sul disagio dell’individuo e quindi incentrati sui sintomi, ma anche a livello sistemico con tutti i sottosistemi che a vario titolo sono entrati in contatto con quel disagio: la famiglia, gli insegnanti, il sistema scuola, gli altri ragazzi. Pitagora, il notissimo filosofo greco vissuto in epoca ampiamente precristiana, in un contesto sociale scevro dai condizionamenti potenzialmente derivanti dalla cultura contemporanea, sosteneva che «educare i bambini equivale a non dover poi punire gli adulti» riportandoci all’intrinseca idoneità di un approccio terapeutico che si fondi sulle relazioni tra tutti i soggetti direttamente o indirettamente coinvolti.