Editoriali

LA CRISI EMERGENZIALE E LA PICCOLA IMPRESA

a cura di Maria Lucetta Russotto

16 Aprile 2021

Le MPMI sono arrivate all’evento imprevedibile della pandemia dopo un decennio, iniziato con la grande crisi del 2008, caratterizzato da una ripresa lenta e incompiuta, che aveva consentito di recuperare solo parzialmente i livelli dei conti economici precedenti alla crisi.

Infatti, nonostante nel 2019 i ricavi siano stati superiore del 2% rispetto ai livelli del 2007, la redditività era rimasta ampiamente al di sotto, con le PMI che avevano perso il 19,4% del Mol rispetto al 2007 e il ROE che dal 13,9% del 2007 era passato al 10,8% del 20191

E’ ormai chiaro a tutti che in una situazione di questo tipo, di fronte a una ripresa che iniziava appena a recuperare le posizioni economiche del decennio precedente, l’emergenza epidemiologica abbia avuto, abbia e presumibilmente avrà per i prossimi dieci anni implicazioni economiche senza precedenti, sia in termini di natura che di intensità2; e questo nonostante si presuma che la maggior parte delle PMI italiane presenterà i bilanci del 2020 all’approvazione con un pareggio o con un utile d’esercizio e con indici di redditività mediamente ancora positivi, anche se molto inferiori ai valori del 20193.

Il motivo è facilmente spiegabile: l’estensione della cassa integrazione e gli interventi con garanzie pubbliche per immettere liquidità hanno supportato le MPMI e limitato lo squilibrio finanziario con conseguente contrazione dei costi relativi.

In definitiva la chiusura forzata di molte attività, la ridotta mobilità delle persone, le norme di distanziamento sociale, i massicci interventi pubblici in ambito monetario e fiscale, i cambiamenti indotti nei comportamenti di persone e imprese per effetto del nuovo contesto (pensiamo a esempio il diverso costo del lavoro a distanza) stanno modificando pesantemente le relazioni fra i valori di bilancio, consentendo solo in parte la possibilità di una valutazione delle conseguenze nel breve-medio periodo. È in questo momento che diventa attuale il concetto di insolvenza o non insolvenza prospettica4.

Le vicende economiche nate dai DPCM di contenimento della pandemia emanati dall’inizio del 2020 a oggi, stanno generando a carico delle imprese un fenomeno di illiquidità a seguito del quale si presume che un numero rilevante delle stesse presenti gli elementi ex art. 15 LF di una posizione debitoria superiore a trentamila euro e una incapacità a breve di far fronte agli impegni contratti. 

Una recente Cassazione5 stabilisce che “…L’accertamento dello stato di insolvenza -che deve essere compiuto con riferimento alla situazione esistente alla data della sentenza dichiarativa di fallimento- rientra nel novero degli accertamenti di fatto di pertinenza del collegio del reclamo ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte…”, quasi a dire che stanti gli elementi dispositivi previsti dalla norma solo l’esistenza di una mancata correttezza giuridica o la presenza di elementi di incoerenza logico formale possono portare a disattendere la dichiarazione di stato di insolvenza di una impresa. 

Il problema però è che se la valutazione dello stato di insolvenza viene effettuata sullo squilibrio finanziario, si rischia di dichiarare fallimenti di imprese che invece non sono realmente insolventi.

Ne consegue, sul piano più strettamente giuridico, che, ove un’impresa sana o in zona grigia (ma con possibilità di recupero) si trovi a corto di liquidità dovuta alla crisi da lockdown per pandemia COVID-19, e venga attinta da un’istanza di fallimento di un qualche creditore insoddisfatto, a sua volta, forse, in difficoltà, la decisione, previa analisi della reale situazione economica (non solo finanziaria) non dovrebbe sfociare nel fallimento, posto che l’impresa si trova in uno stato non di insolvenza, bensì di temporanea illiquidità, la cui ampiezza temporale deve essere commisurata non tanto ai classici 6 mesi cui sono abituati i tribunali, ma ai 12-18 mesi della scienza aziendalistica, che oggi sicuramente possono essere dilatati a 24 mesi se si considera l’estensione ancora in atto di totale chiusura di alcuni settori economici.

I tribunali dovrebbero quindi accertare, a mezzo di una rapida ctu, o basando la loro valutazione su attestazioni di professionisti indipendenti prodotte dalla parte interessata, se l’impresa era economicamente già decotta alla data del 9 marzo 2020 (inizio del lockdown) oppure semplicemente in crisi o addirittura sana; nonché valutare la possibilità di  rigettare l’istanza di fallimento per l’esistenza di una situazione non già di insolvenza, ma di temporanea illiquidità, peraltro determinata da “forza maggiore.

Al rigetto dell’istanza di fallimento per temporanea illiquidità potrebbe sostituirsi un lungo rinvio, per verificare all’esito lo stato economico dell’impresa.

All’impossibilità di dichiarare il fallimento potrebbe, peraltro, giungersi anche in via legislativa, con una modifica all’art. 15 LF, senza dover costringere i tribunali a prendere decisioni a macchia di leopardo, con pessime conseguenze in termini di certezza del diritto e di tenuta del sistema economico.

Meglio quindi, per effetto di un calibrato intervento legislativo, immaginare un istituto di gestione controllata dell’impresa, allo scopo sia di accompagnare l’imprenditore fuori dalla crisi che di controllare la sorte delle provvidenze statali e salvaguardare la possibilità di restituzione dei finanziamenti garantiti dallo stato.


1 Rapporto Cerved novembre 2020.

2 Tamburini F., Un nuovo modello economico dopo la notte della pandemia, IL Sole 24 Ore, Commenti, aprile 2020.

3 Cit. Rapporto Cerved novembre 2020.

4 Il Caso.it, Sez. Giur., n. 22981 – pubb. 14/01/2020; Trib. Benevento 18/12/2019. Pres., est. Monteleone.

5 Cassazione civile, sez. VI, 5 novembre 2020, n. 24660 (Rel. Pazzi).