Commento

LA DELIBAZIONE DELLE SENTENZE DI NULLITÀ DI MATRIMONIO PRONUNCIATE DAI TRIBUNALI ECCLESIASTICI ED IL LIMITE DELL’ORDINE PUBBLICO NELLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

a cura di Alessandro Rossi

24 Giugno 2021

Con il termine delibazione o exequatur, si intende la procedura giudiziaria che serve a far riconoscere come produttivo di effetti giuridici in un determinato Stato, un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria di un altro Stato. A tale procedura vengono sottoposte le sentenze di nullità matrimoniale emesse dai Tribunali Ecclesiastici, in applicazione dell’Accordo tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica del 18 febbraio 1984, modificativo della precedente normativa in materia prevista dal Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, reso esecutivo dalla L. 25 marzo 1985, n. 121.

L’art. 8, n. 2 di tale rinnovata disciplina prevede espressamente che “Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della corte d’appello competente, quando questa accerti:

     a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in conformità del presente articolo;

     b) che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano;

     c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere”.

La corte d’appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia”.

Tale procedura è rimasta immutata con l’entrata in vigore della Riforma del diritto internazionale privato avvenuta con la legge 31 maggio 1995 n. 218. Per le sentenze emesse dai Tribunali Ecclesiastici non trova quindi applicazione la disciplina del riconoscimento automatico previsto dagli art.li 64 e 65 della legge sopra citata.

In particolare, l’art. 65 dispone il riconoscimento automatico della sentenza straniera relativa alla capacità delle persone nonché all’esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità all’interno dell’ordinamento giuridico italiano (senza che sia necessario alcun procedimento), purché la stessa non sia contraria all’ordine pubblico e siano stati rispettati i principi fondamentali di difesa.

In base alla prevalenza della fonte pattizia internazionale sulla legge italiana, rimane obbligatoria per le decisioni emesse dai Tribunali Ecclesiastici la procedura di delibazione dinanzi alla Corte d’Appello di cui agli abrogati art. 796 e 797 del c.p.c., in regime di ultrattività.

Nello specifico, a seguito del giudizio di delibazione nel quale è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, la Corte d’Appello dichiara con sentenza l’efficacia nella Repubblica della sentenza di nullità matrimoniale pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico quando accerta:

  1. che il giudice dello Stato nel quale la sentenza è stata pronunciata poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale vigenti nell’ordinamento italiano; 
  2. che la citazione è stata notificata in conformità alla legge del luogo dove si è svolto il giudizio ed è stato in essa assegnato un congruo termine a comparire;
  3. che le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo o la contumacia è stata accertata e dichiarata validamente in conformità della stessa legge;
  4. che la sentenza è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunciata;
  5. che essa non è contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano;
  6. che non è pendente davanti ad un giudice italiano un giudizio per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, istituito prima del passaggio in giudicato della sentenza straniera;
  7. che la sentenza non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano.

Ai fini dell’attuazione il titolo è costituito dalla sentenza straniera e da quella della Corte d’Appello che ne dichiara l’efficacia.

Il concetto di ordine pubblico nella recente giurisprudenza di legittimità 

La Suprema Corte, con le sentenze pronunciate a Sezioni Unite n. 16380/2014 e n. 16379/2014, ha risolto un preesistente contrasto giurisprudenziale, precisando che ai fini dell’operatività del principio di ordine pubblico quale limite al riconoscimento di effetti civili alle sentenze di nullità matrimoniale emesse dai Tribunali Ecclesiastici, il matrimonio non deve essere considerato solo come atto costitutivo, ma anche come rapporto giuridico, ossia come vincolo rafforzato da un periodo di esperienza matrimoniale in cui sia persistente la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri, considerando i tre anni successivi al matrimonio come requisito minimo presuntivo a dimostrazione della stabilità del rapporto, così come già stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza. n. 281/1994.

La convivenza “come coniugi” è da intendersi, secondo la Costituzione (artt. 2, 3, 29, 30 e 31), le Carte Europee dei diritti (art. 8, paragrafo 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, quale elemento essenziale del “matrimonio – rapporto”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso specifici fatti e comportamenti dei coniugi. La convivenza “come coniugi” è fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari.

In base a tale principio, la Suprema Corte ha mutuato dalla legge n. 184/1983 (la quale all’art. 6 consente ai coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni di fare richiesta di adozione di minore), il lasso di tempo in base al quale può essere considerato continuativo e stabile il rapporto coniugale. In base a tale interpretazione, la volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri è da considerarsi sussistente in base ad un principio presuntivo una volta trascorsi tre anni dalla data del matrimonio concordatario trascritto nei registri dello stato civile (così come già stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 281/1994).

In tal modo intesa, la convivenza come coniugi, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie di ordine pubblico, e pertanto, anche in applicazione dell’art. 7 Cost., comma 1, e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, reso esecutivo dalla L. 25 marzo 1985, n. 121, e dell’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal Tribunale Ecclesiastico nell”ordine canonico nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale.

Per la Suprema Corte la convivenza “come coniugi”, intesa come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali Ecclesiastici, deve qualificarsi come eccezione in senso stretto (exceptio juris), opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge. Pertanto, essa non può essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di delibazione né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità, dinanzi al quale, peraltro, non può neppure essere dedotta per la prima volta. Tale eccezione in senso stretto può essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza, nella comparsa di costituzione e risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere, il quale ha inoltre l’onere sia di allegare fatti e comportamenti dei coniugi specifici e rilevanti, idonei ad integrare detta situazione giuridica d’ordine pubblico, sia di dimostrarne la sussistenza in caso di contestazione mediante la deduzione di pertinenti mezzi di prova anche presuntiva.

Ne consegue che il giudice della delibazione può disporre un ‘apposita istruzione probatoria, tenendo conto sia della complessità dei relativi accertamenti in fatto, sia del coinvolgimento di diritti, doveri e responsabilità personalissimi dei coniugi, sia del dovere di osservare in ogni caso il divieto di riesame del merito della sentenza canonica, espressamente imposto al giudice della delibazione dal punto 4, lett. b), n. 3, del Protocollo addizionale all’Accordo.

Tale orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte è stato ripetutamente confermato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha ribadito il principio secondo cui la convivenza “come coniugi”, quale elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di ordine pubblico italiano (come già affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 18/1982 e n. 203/1989), e di conseguenza impedisce la dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal Tribunale Ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del “matrimonio-atto”. La convivenza triennale “come coniugi”, quale situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all’esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima, è oggetto di un’eccezione in senso stretto, che il convenuto ha l’onere di proporre a pena di decadenza nella comparsa di costituzione e risposta (Cass., n. 8028/2020, Cass., n. 21345/2019; Cass., n. 24729/2018; Cass., n. 26188/2016, Cass., n. 2648/2017; Cass., n. 26188/2016; Cass., n. 18695/2015).

Conclusioni

A seguito dell’entrata in vigore della legge n. 218 del 31 maggio 1995, appare evidente come all’interno dell’ordinamento giuridico italiano si realizzi un ingiustificata ed anacronistica disparità di trattamento nei confronti delle sentenze dei Tribunali Ecclesiastici rispetto alle altre sentenze straniere, in ragione della ultrattività del soppresso giudizio di delibazione in base alla  prevalenza  dell’Accordo tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica del 18 febbraio 1984 sulla legge n. 218/1995.

Il superamento di tale contraddizione logica è auspicabile, in una prospettiva de jure condendo, attraverso un circoscritto intervento di revisione dell’Accordo tra lo Stato Italiano e la Chiesa Cattolica che permetta il riconoscimento automatico delle sentenze emesse dai Tribunali Ecclesiastici, così come già previsto per tutte le sentenze straniere ai sensi e per gli effetti degli art. 64 e 65 della legge n. 218/1995.

Attualmente, alla luce della più recente (ed ormai consolidata) giurisprudenza di legittimità, il giudizio di delibazione delle sentenze di nullità del matrimonio concordatario pronunciate dai Tribunali Ecclesiastici è ormai da considerarsi un istituto avente una applicazione pratica alquanto limitata.

In base a quanto sopra esposto, un margine per il riconoscimento degli effetti civili della sentenza canonica di nullità matrimoniale potrà aversi nel caso di mancanza del consenso ai sensi del disposto al can. 1095 del Codice di Diritto Canonico, entro i tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario (ovvero anche oltre lo spirare di tale termine in caso di accordo tra i coniugi). Un ragionamento diverso dovrà essere fatto con riferimento ad altri vizi da cui per l’ordinamento canonico discende la nullità del matrimonio, quali l’errore di cui al can. 1097 del Codice di Diritto Canonico, il dolo di cui al can. 1098 del Codice di Diritto Canonico, la simulazione totale o parziale di cui al can. 1101 par. 2 del Codice di Diritto Canonico.

Con riferimento alle cause di nullità da ultimo elencate, il costante orientamento della Suprema Corte sostiene che l’indagine sulla conoscenza o conoscibilità dell’esclusione di tali cause di nullità del matrimonio canonico viene svolta dal giudice della delibazione in piena autonomia, ancorché sulla esclusiva base delle risultanze probatorie del giudizio ecclesiastico. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui la nullità del matrimonio, in sede di giudizio ecclesiastico, sia stata fondata sulla divergenza unilaterale tra volontà dichiarata e volontà effettiva, poiché la tutela della buona fede e dell’affidamento costituisce un principio cardine di ordine pubblico, la conoscenza o conoscibilità di tale divergenza rispetto a tali cause di invalidità del matrimonio, costituisce accertamento di fatto rimesso esclusivamente al giudice italiano, attenendo alla conformità o contrarietà al parametro dell’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica. Deve considerarsi come ininfluente l’eventuale diversa valutazione compiuta del Tribunale Ecclesiastico in ordine all’affidamento del coniuge che non ha determinato la causa di nullità, in quanto del tutto estraneo all’accertamento della pienezza del consenso contestata unilateralmente dall’altro coniuge. La non conoscenza o la non conoscibilità utilizzando la normale diligenza di tali vizi del consenso da parte di uno dei coniugi, nel caso in cui i vizi stessi siano rimasti nella sfera psichica dell’altro coniuge, impedisce il riconoscimento degli effetti civili della sentenza emessa dal Tribunale Ecclesiastico (Cass. n. 4387/2014, Cass. n. 3378/2012, Cass. n. 22011/2007; Cass. n. 6686/2010, Cass. n. 24047/2006, Cass. n. 27078/2005).