Commento

LAVORO VS REDDITO. RISOLVERE IL CONFLITTO, COORDINANDO E VALUTANDO LE POLITICHE PUBBLICHE. COMMENTO ALLA L.R. 28/2018 SUL RIORDINO DEL MERCATO DEL LAVORO.

a cura di Valerio Martinelli

16 Giugno 2018

Nell’era della digitalizzazione, dell’epopea dell’innovazione tecnologica tout court, dei robot-giornalisti (come quello di recente sviluppato in Cina) è certo facile (retro)cedere alla tentazione di mettere da parte il lavoro per far spazio al reddito garantito.

Chi lavorerà infatti se le macchine e i robot faranno tutto il lavoro? Questo è l’adagio ormai fin troppo diffuso. Perché non garantire un reddito minimo a tutti in questi giorni di crisi e in un momento in cui il futuro – specialmente quello lavorativo – sembra così incerto?

La resa, senza condizioni, all’esistente di chi – specialmente fra coloro che hanno responsabilità di governo e nelle istituzioni – si fa portatore di un’idea simile è disarmante. Non c’è visione, non c’è progetto per il futuro, non c’è sviluppo e tantomeno coraggio. Ci si arrende all’idea che le nostre politiche pubbliche più non possano fare che ritirarsi davanti alle difficoltà e lasciare sul campo un’elemosina di Stato, come già da altri è stata definita.

Ci si dimentica dell’essenza stessa della nostra Costituzione, talvolta ingiustamente non considerata nella sua “vocazione” propriamente “lavorista”. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro – non sul reddito -, recita il Nostro art. 1. Quel lavoro che è valore, diritto ma è anche dovere “di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”, secondo il non così enigmatico art. 4 della Carta Fondamentale.

Costituzione alla mano quindi, dobbiamo chiederci: verso quale orizzonte dovrebbero tendere le nostre politiche economiche se non verso il riconoscimento del diritto al lavoro, tramite la promozione – parafrasando sempre la Carta – delle condizioni che lo rendono effettivo? E come si può riconoscerlo veramente e renderlo davvero effettivo?

Non certo tramite approssimate deregolamentazioni o interventi spot sul mercato del lavoro (il cui insuccesso è stato più volte dimostrato) né tramite mere politiche assistenziali – fra l’altro nemmeno ben definite nei modi, nei tempi e negli strumenti -, pur necessarie per alcune categorie di soggetti in povertà assoluta ma solo se intelligentemente coordinate con strategie di reinserimento sociale.

È forse il coordinamento – intelligente – che manca, a ben vedere, fra le politiche che compongono il nostro welfare da tutti i punti di vista e in special modo per quanto concerne la “tutela” del nostro diritto al lavoro. Molto si può fare, indubbiamente, coordinando e valutando meglio quelle politiche del lavoro (quelle attive in particolare modo, cioè quelle che vanno ad intervenire sullo sviluppo delle competenze e dell’occupabilità dei cittadini “potenziali” lavoratori, tramite la formazione ad esempio) e quelle politiche per l’occupazione che si dimostrino efficaci ed efficienti.

Per questa ragione, ci sembra positiva, o almeno, sembra muoversi in questa direzione la l. r. 28/2018 che va a tentare un “riordino del mercato del lavoro” – benché venga usata una terminologia che non ci convince più di tanto però, considerato quanto abbiamo già detto -, tramite l’istituzione dell’Agenzia Regionale Toscana per l’Impiego (ARTI) ed il chiarimento, se vogliamo, sul trasferimento di alcune competenze in materia di lavoro e contrasto alla disoccupazione, che passano effettivamente in capo alla Regione.

Fino all’approvazione di questa legge infatti, si viveva il curioso paradosso per cui la regione “sulla carta” era investita delle competenze relative alle politiche attive del lavoro, ma di fatto non aveva a disposizione il personale per poter gestire ed offrire al meglio questi servizi. Con la l.r. 28/2018 invece più di 400 dipendenti dei centri per l’impiego sparsi sul territorio sono passati all’ente Regione concretizzando questo trasferimento di funzioni.

L’ARTI, che si occuperà di coordinare, con 53 sedi periferiche, le politiche attive del lavoro è il nuovo contenitore e gestore dei servizi per l’occupazione erogati sul territorio regionale. Alla Regione in quanto tale, spetterà il compito di valutare queste politiche e i loro effetti sul territorio.

Senza dubbio, è presto per dire se questa soluzione potrà dimostrarsi efficace ed efficiente. È possibile però apprezzarne lo spirito generale che cerca di conferire al sistema delle politiche del lavoro e dei servizi per l’occupazione una dimensione organica, unitaria e ben coordinata, almeno a livello regionale. La guardia però non può essere abbassata e non possiamo permetterci di prender tutto per buono: dobbiamo investire in innovazione tecnologica e nella formazione delle competenze e delle professionalità degli operatori che in questo settore lavorano e lavoreranno per poter fornire un servizio efficace ai cittadini/utenti di questi servizi.

È quanto mai opportuno poi, promuovere una cultura della valutazione delle politiche pubbliche nelle nostre amministrazioni in modo da poter calibrare al meglio l’azione degli enti coinvolti e ottimizzare gli effetti sulle persone e sui territori. Abbiamo già dei risultati in questo senso e non li valorizziamo, anche a livello regionale.

Nei prossimi mesi vedrà la luce, ad esempio, una piccola pubblicazione – risultato dello studio e del lavoro di analisi del sottoscritto assieme ad un funzionario del Consiglio Regionale – sugli effetti della politica del Servizio Civile sull’occupazione in Toscana: i risultati sono positivi e sorprendenti. Perché, allora, non destinare risorse ad una politica come questa che già sappiamo ben funzionare – in termini di sviluppo di professionalità ed occupabilità – invece di perdere tempo e risorse dietro a formule di reddito minimo? Vale la pena rifletterci.

Qualcosa si inizia a muovere e non tutto è perduto. Confapi, la confederazione italiana per la piccola e media industria privata, ricevuta qualche giorno fa dal Ministro dell’Interno assieme ad altre associazioni di categoria, ha proposto di destinare le risorse previste (o meglio, immaginate) per il c.d. reddito di cittadinanza a quelle imprese che garantiscano l’assunzione  e la formazione di giovani: si propone di investire in lavoro, anche qui, e non in reddito.

È chiaro che il problema, dalla mera sfera del “giuridico”, si estende alla dimensione della sensibilità  intellettuale e politica e qui non resta che vedere se, come comunità, saremo in grado di esprimere, col tempo, cittadini ben formati che possano concorrere seriamente alla definizione di indirizzi – non solo – politici per il bene del Paese e della collettività e non al servizio di qualche piccolo, misero, interesse elettorale momentaneo.