Commento

LE BANCHE E IL SOVRAINDEBITAMENTO

a cura di Maria Lucetta Russotto

16 Aprile 2020

Analisi della situazione e nuova moratoria sui mutui prima casa.

Il Comitato Economico e Sociale definisce il sovraindebitamento dei consumatori come una situazione in cui “le famiglie sono oggettivamente incapaci di pagare i debiti a breve termine”. Con raccomandazione CM/Rec(2007) il legislatore europeo si riferisce al sovraindebitamento come a “una situazione nella quale i debiti di un individuo o di una famiglia manifestamente e nel lungo periodo, eccedono la capacità di   pagamento”;   è   poi   definita   anche   come   una “situazione di temporaneo o permanente squilibrio, nel patrimonio della famiglia, risultante da un atteso o da un inaspettato incremento delle spese o, viceversa, dalla diminuzione del reddito della famiglia”.

Per il legislatore italiano la definizione del sovraindebitamento avviene con l’introduzione della travagliata Legge 27 gennaio 2012, n. 3.

L’articolo 6, comma 2, così come riformulato a seguito del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito in legge dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, lo definisce come la “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficolta’ di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacita’ di adempierle regolarmente.”

Si tratta di definizioni che, per lo più, prendono come punto di riferimento la famiglia, tanto nella sua dimensione collettiva quanto individuale, e valutano una situazione a lungo termine ovvero danno rilievo a problemi strutturali della crisi del debitore; dove il debitore non sia in grado di adempiere alle obbligazioni contratte senza ridurre i costi della vita al di sotto del suo standard minimo, elemento che comporta una situazione di illiquidità. Ovvero il debitore non è in grado di porre rimedio alla propria condizione “without recourse to further debt or other financial sources”.

Il problema del sovraindebitamento e delle conseguenze sociali da esso prodotte ha radici storiche individuabili già nell’antichità classica, e in particolare nella crisi agraria che colpi la Grecia nel VI secolo A.C..

Aristotele, nella sua Costituzione degli Ateniesi, riferisce che in quel periodo Solone adottò delle misure per cancellare i debiti dei piccoli produttori agricoli che, ridotti in   schiavitù  a causa dell’inadempimento dei   debiti, venivano venduti e successivamente affrancati per essere reinseriti nella vita sociale di Atene come dei liberi cittadini.

Ma è solo nel nostro contesto storico che la questione de qua assume profili allarmanti, in quanto l’uso attuale è che l’indebitamento costituisce la normale forma di gestione del patrimonio delle famiglie. Ormai tutto si compra a credito.

Il ricorso al credito e all’indebitamento non costituisce più espressione di inferiorità sociale, considerandosi ormai forma di pagamento generalmente accettata e preferita. Si pensi alla normativa che incentiva l’uso del denaro elettronico a fronte di quello in contanti.

Si aggiunga che, da un punto di vista psicologico, la rateizzazione ha il pregio di non far percepire come immediata la spesa e, quindi, di far sentire come meno gravoso l’esborso.

La cosiddetta credit society ha preso il posto della cash society ove il “consumatore-pagatore” è sostituito dal “consumatore-acquirente”; e infatti si analizza che una delle principali cause del sovraindebitamento è individuato nell’uso del credito, tra cui il credito al consumo.

Non si vuole con ciò sostenere che più è elevato il ricorso al credito al consumo e più si verifica il sovraindebitamento, in quanto, in realtà, il dato statistico che emerge è l’opposto. Gli studi dimostrano che ove il mercato dei prestiti è ben sviluppato, i problemi di rimborso dei consumatori sono di gran lunga inferiori rispetto ai Paesi caratterizzati da una maggior arretratezza del mercato.

In Italia i numeri del ricorso al credito e all’indebitamento sono sempre stati inferiori ai dati riportati dalle statistiche dei Paesi europei, e questo non per arretratezza culturale ma per la naturale propensione al risparmio che ha sempre caratterizzato le famiglie della nostra penisola; ma dall’entrata in vigore dell’euro e ancor più sostanzialmente dell’inizio della crisi del 2008, si è assistito a un incremento notevole del ricorso all’indebitamento.

Alla fine del 2008 il rapporto tra il complesso dei debiti finanziari e il reddito disponibile risultava del 57 per cento; nell’area dell’euro il corrispondente valore era del 93 per cento”.

Si rileva che il 62,8 per cento dei prestiti è costituito dai mutui per l’acquisto di abitazioni (per un ammontare pari a circa 239,9 miliardi di euro); il 10,3 per cento dal prestito personale (per un ammontare stimato di circa 39,4 miliardi di euro); l’11,2 per cento dal prestito finalizzato, cioè il credito al consumo erogato tramite dealer per l’acquisto, ad esempio, di beni mobili quali automobili ed elettrodomestici (per circa 42,7 miliardi di euro); il 2,6 per cento dalla cessione del quinto dello  stipendio/pensione (per circa 9,8 miliardi di euro); il 4,6 per cento dalle carte di credito revolving (per un ammontare delle consistenze che si stima pari a circa 17,5 miliardi di euro).

Si noti che nel 2008 l’utilizzo delle carte revolving è aumentato dell’11 per cento rispetto al 2006 e che nel 2009si è verificato un incremento del 25 per cento rispetto al 2008; a oggi questo tipo di carte in Italia ammontano a 8,3 milioni.

L’8,6 per cento è, poi, costituito da altri prestiti, ovvero crediti non riconducibili né al credito al consumo, né ai mutui ipotecari per l’acquisto delle abitazioni, per un ammontare di circa 32,7 miliardi di euro.

È stato rilevato che a fine settembre 2009, il mercato del credito al consumo presentava finanziamenti di 110 miliardi di euro, ovvero il 6 per cento di crediti erogati da tutto il sistema finanziario italiano.

Oltre la metà della cifra in parola, ovvero 60 miliardi, è rappresentato dai prestiti personali, che aumentano la capacità di acquisto delle persone, ma non sono finalizzati all’acquisto di uno specifico bene, mentre i crediti finalizzati ammontano a circa 30 miliardi di euro.

L’atteggiamento degli istituti di credito nei confronti del cittadino sovraindebitato è sempre stato di immediata sfiducia e di altrettanta immediata richiesta di rientro sul finanziamento erogato; con la conseguenza che il consumatore, incapace di pagare il muto prima casa contratto, iniziava a rivolgersi alle finanziarie o a far ricorso alle carte revolving, per deviare su questi soggetti le spese quotidiane e utilizzare le entrate principali per il pagamento del mutuo.

Ciò ha portato a una spirale di debito e rinnovazione del debito e contrazione del nuovo debito fino al momento in cui il soggetto non più in grado di far fronte ai suoi impegni diventa sovraindebitato.

Tale situazione, vista dalla prospettiva delle banche, assume caratteristiche diametralmente opposte.

Per le banche i crediti a rischio di riscossione, o crediti deteriorati (conosciuti anche come prestiti non performanti o, in inglese, non performing loans, NPL) sono i crediti (mutui, finanziamenti, prestiti) che i debitori non riescono più a ripagare, regolarmente o del tutto; debiti per i quali la riscossione è incerta sia in termini di rispetto della scadenza sia per l’ammontare dell’esposizione di capitale. I non performing loans nel linguaggio bancario si distinguono in varie categorie fra le quali le più importanti sono le sofferenze.

In presenza di crediti di tale natura la vigente normativa impone alle banche quella che viene chiamata “operazione di pulizia dei bilanci bancari”. Alle banche è imposto di distinguere il grado di inesigibilità del credito e di eliminare dal suo patrimonio quelli a più alto rischio di inesigibilità.

Da qui il fenomeno della vendita di tali crediti; in genere le posizioni vengono cedute a prezzi di saldo, solitamente in lotti numerosi, a fronte di denaro liquido, a società che studiano la composizione del portafoglio e valutano le probabilità (centile) di riscossione dei crediti deteriorati sulla base delle informazioni commerciali dei soggetti debitori (fallimento, insolvenza senza fallimento, ritardo nei pagamenti).

Nell’aprile 2016, con la finalità di intervenire nelle crisi bancarie provocate dalla grossa quantità di NPL detenuti dagli istituti, è stato costituito il Fondo Atlante per sostenerne la ricapitalizzazione e rilevarne i crediti in sofferenza. Ad agosto 2016 è stato fondato anche il Fondo Atlante 2 per investire unicamente in crediti deteriorati e strumenti collegati ad operazioni in NPL. Ma contestualmente sono state costituite anche innumerevoli società, sia facenti parte dei gruppi bancari, sia di proprietà di privati, finalizzate all’acquisto di questi crediti. 

Il sistema bancario italiano ha fatto passi da gigante. Se solo nel 2015 gli istituti di credito della Penisola soffocavano sotto una montagna di 341 miliardi di euro di crediti deteriorati lordi, ora ne hanno meno della metà: 168 miliardi. Nel 2015 il rapporto tra crediti deteriorati e totale crediti era arrivato al picco del 17%, mentre ora è sceso al 9%. 

L’impennata dei crediti deteriorati è stata originata dalla più grave e prolungata fase di recessione e stagnazione del secondo dopoguerra, iniziata nella seconda metà del 2008 e dalla quale l’economia italiana non si è ancora del tutto ripresa; né, con quanto sta accadendo in questi giorni, mostra né può mostrare, segnali di previsioni positive.

Molti osservatori chiamano in causa anche alcune pratiche poco rigorose di concessione dei prestiti da parte delle banche italiane, emerse anche in alcuni recenti scandali bancari. Si ritiene inoltre che l’aumento dei nuovi NPL sia stato aggravato in Italia da alcuni fattori specifici: dai tempi lunghi di recupero dei crediti, dovuti alle lungaggini della giustizia civile (più di 7 anni necessari per chiudere un fallimento, oltre 5 anni per le esecuzioni immobiliari), per cui ci vuole molto tempo prima che le banche riescano a “liberarsi” dei crediti deteriorati; dallo scarso sviluppo di un vero e proprio mercato dei NPL (fino a pochi anni fa), che offrisse alle banche la possibilità di liberarsi dei crediti deteriorati, vendendoli a operatori specializzati che si occupano del recupero; dalla diffusa presenza di garanzie reali, che può richiedere un’attività di espropriazione e vendita degli immobili, con le relative tempistiche, aggravate dalla debolezza del mercato immobiliare; dal forte peso dei NPL originati da crediti alle imprese dove le attività di recupero sono diventate più lente sia per la molteplicità di forme tecniche di prestito, che per la difficoltà di vendere immobili come capannoni industriale.

Siamo ancora lontani dagli altri Paesi europei. E soprattutto siamo lontani dal 5% imposto dalla Bce entro il 2021. A oggi solo il Trentino rispetta il limite (ha un rapporto al 5,1%), ma alcune Regioni sono lontane anni luce come la Calabria (15,5%), la Sardegna (14,8%), l’Abruzzo (14,5%) o l’Umbria (14%). 

E non è questo il solo problema. Un nodo ancora da sciogliere è quello dei crediti semi-deteriorati: i cosiddetti Utp, o «inadempienze probabili». 

Questa tipologia di crediti (deteriorati ma ancora salvabili) in realtà ha un tasso di peggioramento troppo elevato. L’uno virgola due% del monte-Utp va in sofferenza, quando prima della crisi il rapporto stava sotto l’1%; il che implica che probabilmente molti crediti catalogati come Utp sono in realtà crediti in sofferenza. 

Inoltre la parte più debole dei crediti semi-deteriorati si trova in un settore industriale ben preciso: quello delle costruzioni. Ancora oggi finisce in sofferenza il 4,36% dei crediti semi-deteriorati concessi ad aziende di questo settore: percentuale elevata. E questo è un problema serio per l’economia italiana, perché il 49% delle Pmi italiane lavora proprio nel settore delle costruzioni.

Quindi, quello che sembra un traguardo, un punto d’arrivo su cui sedersi, in realtà non lo è. Non solo perché rispetto agli altri Paesi le banche italiane hanno ancora troppi crediti deteriorati in bilancio; ma anche perché la Bce ha fissato l’obiettivo – valido in tutti i Paesi europei – di arrivare a un rapporto tra crediti deteriorati e totale crediti al 5% entro il 2021: questo significa che le banche italiane (che ora sono al 9%) dovranno vendere altri 80 miliardi di crediti dubbi nel prossimo anno e mezzo. Una sfida quasi proibitiva per un Paese che ha già ingolfato il mercato con 173 miliardi ceduti in soli quattro anni e che l’emergenza epidemiologica e la previsione a causa di questa della sua crisi economica sta letteralmente portando sull’orlo del default.

Tutto questo porta a una conclusione: le banche dovranno vendere ancora tanti crediti deteriorati, siano essi Npl o Utp.

Tutta questa problematica ha generato il fenomeno della proliferazione delle società acquirenti i crediti deteriorati, di cui si è parlato anche sopra.

Infatti, in Italia il mercato dei NPL ha svolto, fino a pochi anni fa, un ruolo marginale. Ha pesato il bid-ask spread, cioè la distanza tra i prezzi a cui le banche erano disponibili a vendere i propri crediti deteriorati e quelli a cui erano disponibili a comprarli gli operatori specializzati. 

In particolare, le valutazioni degli investitori sono state per un periodo prolungato molto basse a causa:

  1.  dei lunghi tempi di estinzione delle sofferenze, che riducono il valore attualizzato dei flussi di recupero;
  2. dei diversi tassi di sconto a cui finanziano le operazioni le banche (più bassi, grazie anche agli schemi di rifinanziamento della BCE) e gli operatori specializzati (più alti, anche perché tipicamente investitori speculativi);
  3. delle asimmetrie informative sui tassi di recupero tra chi detiene il credito deteriorato (la banca) e chi lo deve comprare, che tende ad essere prudente. 

 Nel corso degli ultimi quattro anni, però, grazie anche alla spinta delle autorità di vigilanza, alla riduzione dei tempi di estinzione delle sofferenze e ad altri fattori che hanno ridotto il bid-ask spread, il mercato ha vissuto una fase di grande crescita, con cessioni stimate per circa 70 miliardi di euro di sofferenze (cessioni già avvenute o stimate). 

Il legislatore italiano è intervenuto con diverse disposizioni per favorire una più rapida risoluzione delle sofferenze dai bilanci. 

Nel 2015 il governo ha applicato un importante pacchetto di riforme mirate ad accorciare la durata delle procedure fallimentari, a rendere più efficienti ed efficaci le esecuzioni immobiliari, ad aumentare il successo del concordato preventivo e a rendere fiscalmente più vantaggiose le cessioni di NPL. 

A gennaio 2016, il governo ha varato un meccanismo di garanzie pubbliche utile a smaltire i crediti in sofferenza presenti nei bilanci bancari (Garanzia Cartolarizzazione Sofferenze, o GACS). Il sistema, tramite le cartolarizzazioni, mira a ridurre il differenziale esistente tra il prezzo a cui le banche sono disposte a cedere i crediti deteriorati e il prezzo a cui li valutano i potenziali compratori.

 A maggio 2016, sono state introdotte novità per accelerare il recupero dei crediti in sofferenza: pegno mobiliare, patto marciano sui nuovi contratti di finanziamento, disposizioni su espropriazioni forzate. L’azione riformatrice è stata accompagnata da una forte attenzione da parte delle autorità di vigilanza. In particolare, la Banca Centrale Europea ha pubblicato le “Linee guida sui crediti deteriorati”, con lo scopo di individuare le migliori prassi, di monitorare continuamente gli sviluppi, di promuovere una maggiore tempestività di accantonamenti e cancellazioni. 

L’addendum alle linee guida sui NPL ha comportato l’obbligo anche per le banche italiane di coprire in un periodo compreso fra due anni i crediti non garantiti e in sette anni per quelli garantiti per i quali la svalutazione partirà dal terzo anno per un ammontare del 40% del credito, per passare al 55% dopo quattro anni, al 70% dopo cinque anni, all’85% al sesto anno, fino ad arrivare al 100% al settimo anno.

Un altro cambiamento sostanziale per il sistema bancario italiano è stato costituito dall’entrata in vigore del nuovo principio contabile internazionale IFRS9, che è andato a sostituire lo IAS39. In base alle nuove regole, le banche devono infatti iscrivere le rettifiche su crediti in modo proporzionale all’aumento dei rischi, evitando che gli effetti sui bilanci si manifestino solo nei momenti di crisi.

Da tutto ciò ne è derivato che già nel 2017 lo stock di crediti deteriorati e di sofferenze detenute dalle banche italiane ha iniziato una decisa riduzione, con la conseguenza che la maggior parte dei consumatori, e i loro mutui ipotecari prima casa e i loro debiti al consumo, sono finiti in mano alle società acquirenti gli NPL e alle loro azioni di recupero crediti.

Ora, tale attività di recupero comprende tutti quegli interventi finalizzati a ottenere il pagamento della somma dovuta; la legge prescrive che venga svolta con precise modalità. Ma sono state realmente rispettate?

In particolare, le società del recupero crediti dovrebbero relazionarsi con i consumatori preservando un ruolo di mera intermediazione, svolto con professionalità e rispetto dei diritti dei consumatori.

Proprio il fatto che il credito sottostante sia relativo a un “rapporto di consumo” impone che possa essere richiesto unicamente il pagamento di somme che le aziende creditrici garantiscono essere come certe ed esigibili. Ne deriva che le società di recupero crediti sono obbligate a sospendere ogni attività nel caso in cui il consumatore comprovi documentalmente la pendenza di una “contestazione del credito” o di aver attivato una “procedura di conciliazione” (in tali casi, la società ha l’onere di attendere indicazioni sulla fondatezza o meno dei rilievi del consumatore e istruzioni in ordine alla eventuale prosecuzione delle procedure affidate).

Quanto alle modalità con le quali può svolgersi il recupero, secondo una circolare del Ministero dell’Interno, è ammesso il rintraccio telefonico, telematico e domiciliare del soggetto obbligato anche a mezzo della consultazione di registri ed elenchi pubblici: tuttavia, gli operatori sono tenuti a fornire compiuta informazione della propria qualità e della società di recupero crediti per la quale operano e, contestualmente, ad accertare, volta per volta, l’identità delle persone contattate. Infatti, in ottemperanza alla normativa in materia di privacy è vietato comunicare “ingiustificatamente” a terzi (familiari, colleghi di lavoro, vicini di casa) informazioni relative allo stato della pratica allo scopo di esercitare sul soggetto obbligato “indebite pressioni”. In nessun caso è possibile confrontarsi con dei minori.

In dettaglio, secondo quanto stabilito dallo stesso Garante Privacy, è illecito ogni contatto realizzato tramite:

  • comunicazioni telefoniche di sollecito preregistrate, poste in essere senza intervento di un operatore, perché con questa modalità persone diverse dal debitore possono venire a conoscenza di una sua eventuale condizione di inadempienza;
  • affissioni di avvisi di mora (o, comunque, di sollecitazioni di pagamento) sulla porta dell’abitazione del debitore, potendo tali dati personali essere conosciuti da una serie indeterminata di soggetti nell’intervallo di tempo (talora prolungato) in cui l’avviso risulta visibile”;
  • cartoline postali o plichi recanti all’esterno la scritta “recupero crediti” (o locuzioni simili dalle quali si possa desumere l’informazione relativa al presunto stato di inadempimento del destinatario della comunicazione).

In generale, gli operatori del recupero crediti, quando contattano i consumatori, non possono utilizzare titoli mendaci o toni minacciosi atti a generare indebita pressione, né prospettare conseguenze irreali o inapplicabili (es. distacchi di utenze non previsti dal contratto; iscrizione di ipoteche su crediti irrisori, conseguenze penali per l’inadempimento, etc.); i toni  devono essere improntati a buona educazione/rispetto e finalizzati ad instaurare un percorso di confronto concordato in merito alle cause dell’insolvenza e alle possibili soluzioni; non devono essere reiterati in maniera petulante ed aggressiva (nell’arco della medesima giornata può svolgersi al massimo un colloquio effettivo col debitore, mentre nell’arco della medesima settimana possono svolgersi al massimo tre colloqui effettivi col debitore); non possono essere effettuati contatti durante le festività nazionali ed in orari diversi dai seguenti 8.30-21.00 dal lunedì al venerdì (8.30-15.00 il sabato); le richieste di pagamento (effettuate per mezzo di posta ordinaria, elettronica, raccomandata o per il tramite del competente ufficiale giudiziario), devono fornire la causale e il dettaglio delle somme richieste, specificandone le singole componenti (capitale, interessi, spese accessorie); devono essere indicate obbligatoriamente le modalità di pagamento e le conseguenze dell’eventuale protrarsi dello stato d’inadempimento; devono prevedere termini “congrui” (che comunque, secondo i Codici di autoregolamentazione, non devono essere inferiori a 10 giorni); dette richieste devono contenere una clausola di cortesia del seguente tenore: “Qualora abbia già saldato il Suo debito, consideri nulla la presente e, al solo fine di permettere l’allineamento contabile della Sua posizione, per evitare ulteriori rilevazioni d’insolvenza, voglia cortesemente documentare l’avvenuto pagamento delle fatture, inviando copia della relativa ricevuta […]”; ogni comunicazione (e-mail, fax e sms, ecc.) che contiene il dettaglio della posizione debitoria e/o le coordinate ove effettuare il pagamento, deve essere inviata unicamente in accordo con il consumatore evitando modalità ingiustificatamente ripetitive; le richieste di contatto possono essere inviate per un massimo di quattro nell’arco di un mese. Tali comunicazioni, infatti, non possono essere utilizzate come sistema di primo sollecito di pagamento, a meno che il recapito utilizzato non sia stato fornito dal consumatore anche allo scopo di ricevere comunicazioni sullo svolgimento del rapporto; le eventuali visite domiciliari devono essere improntati a buona educazione/rispetto e finalizzati ad instaurare un percorso di confronto concordato in merito alle cause dell’insolvenza e alle possibili soluzioni e non devono essere reiterate in maniera petulante ed aggressiva; le comunicazioni recapitate al domicilio devono indicare i riferimenti dell’incaricato e della società per la quale opera, il soggetto creditore e il motivo della visita, nonché un recapito telefonico da contattare per eventuali richieste di chiarimenti e/o informazioni; le visite al domicilio non possono essere effettuate durante le festività nazionali ed in orari diversi dai seguenti 8.30-21.00 dal lunedì al venerdì (8.30-15.00 il sabato) né è consentito effettuare visite sul posto di lavoro del consumatore senza previo accordo.

Non ultimo, le società di recupero crediti sono obbligate a fornire adeguata risposta al consumatore che si lamenta del loro operato attraverso un reclamo in forma scritta.

Orbene, possiamo affermare che tali norme comportamentali siano state rispettate? 

Purtroppo la maggior parte delle testimonianze raccolte descrive comportamenti opposti rispetto a quelli indicati dalla norma, atteggiamenti vessatori e offensivi, prevaricazioni e chiamate anche notturne, minacce. Atteggiamenti tutti che sono oggetto di precise interrogazioni parlamentari.

Nel frattempo, ad allentare in parte la pressione del consumatore, sono intervenute le norme introdotte dal legislatore (a seguito dell’emergenza epidemiologica) relativamente alla moratoria sui mutui prima casa.

Tali regole valgono per chi ha subito la sospensione del lavoro per almeno 30 giorni o la riduzione dell’orario di lavoro per lo stesso tempo; per i lavoratori autonomi e i professionisti che abbiano visto il proprio fatturato ridursi in maniera rilevante. 

Il decreto del Mef è frutto di due interventi successivi: con il primo (il Dl 9/2020) era stato deciso che la moratoria sui mutui prima casa andava applicata a tutti coloro che avessero subito la riduzione dell’orario di lavoroi; con il secondo (Dl 18/2020) c’è stato un notevole allargamento: per nove mesi anche tutti i lavoratori autonomi potranno chiedere il congelamento della rata. Per attuare queste regole era, però, necessario un ulteriore decreto del ministero dell’Economia, che è stato pubblicato sabato 28 marzo.

I decreti integrano il regolamento del Fondo di Solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa (il cosiddetto fondo Gasparrini ) istituito, presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con la legge n. 244 del 24/12/2007 che all’articolo 2, commi 475 e ss., ha previsto la possibilità, per i titolari di un mutuo fino a 250.000 euro, contratto per l’acquisto della prima casa, di beneficiare della sospensione per 18 mesi del pagamento delle rate al verificarsi di situazioni di temporanea difficoltà.

Nelle misure urgenti predisposte dal Ministero viene specificato che, anche per questa moratoria, l’immobile oggetto del mutuo deve essere identificabile come «prima casa» (adibito quindi ad abitazione principale dello stesso mutuatario); e lo stesso deve avere le caratteristiche non di lusso indicate nel decreto del Ministero dei lavori pubblici in data 02/08/1969, ovvero non rientrare nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9. Ovviamente rimane anche il limite di euro 250.000,00 di entità del mutuo. 

Il Fondo, in occasione dell’emergenza sanitaria per l’epidemia di Coronavirus, è stato rifinanziato con 400 milioni di euro e, come disposto dall’articolo 54 del Decreto Legge 18/2020, la platea dei potenziali beneficiari è stata allargata in maniera che tutti i titolari di un mutuo contratto per l’acquisto della prima casa che siano nelle situazioni di temporanea difficoltà previste dal regolamento, possano beneficiare della sospensione del pagamento delle rate fino a 18 mesi.

Restano fermi tutti i vecchi casi di accesso al fondo che danno diritto alla sospensione (come la morte o il riconoscimento di un handicap grave), e se ne aggiungono altri; ovvero potranno accedere i lavoratori dipendenti sospesi dal lavoro in seguito a provvedimenti di cassa integrazione per almeno  30  giorni  lavorativi consecutivi oppure che subiscono una riduzione dell’orario di lavoro per un periodo di  almeno  30 giorni lavorativi consecutivi, corrispondente ad una riduzione almeno pari al 20% dell’orario complessivo; i lavoratori autonomi e i liberi professionisti  che  autocertifichino  di  aver  registrato,  in  un  trimestre  successivo  al  21 febbraio 2020 ovvero nel minor lasso di tempo  intercorrente  tra  la data della domanda e la predetta data, un calo del proprio fatturato, superiore  al  33%  del  fatturato  dell’ultimo  trimestre  2019   in conseguenza  della  chiusura  o  della  restrizione   della   propria attività  operata  in   attuazione   delle   disposizioni   adottate dall’autorità  competente  per  l’emergenza  coronavirus.

A ogni periodo di sospensione dal lavoro corrisponde un periodo di congelamento del mutuo. Sei mesi di stop per sospensioni o riduzioni tra 30 e 150 giorni. Dodici mesi di stop tra 151 e 302 giorni. Diciotto mesi di stop quando si superano i 303 giorni. Le sospensioni possono essere anche ripetute finché il fondo ha capienza. Per i lavoratori autonomi, la sospensione prevista è di nove mesi. E su questa differenziazione si potrebbe incardinare una eccezione di costituzionalità, nel combinato disposto degli articoli 3  e 53  della Costituzione, laddove pone tutti i cittadini uguali davanti alla legge e obbligati a partecipare alla spesa pubblica in base alla loro capacità contributiva; non spiegandosi quindi i maggiori aiuti derivanti non dalla capacità contributiva o di reddito, ma bensì dalla qualifica lavorativa.

Restano inspiegabilmente escluse le famiglie che hanno acquistato la propria abitazione recentemente, precisamente dopo marzo 2019. La misura di sostegno, ampliata per l’emergenza coronavirus dal Dl «Cura Italia», sarà inaccessibile anche per tutte quelle giovani coppie, spesso con un componente under 35, per cui è stato attivato il Fondo nazionale di garanzia mutui prima casa per accedere al finanziamento

La sospensione del pagamento delle rate di mutuo non comporterà l’applicazione di nessuna commissione o spesa di istruttoria e deve avvenire senza la richiesta di garanzie aggiuntive.

Per ottenere la sospensione del mutuo, il cittadino in possesso dei requisiti previsti per l’accesso al Fondo deve presentare la domanda alla banca che ha concesso il mutuo e che è tenuta a sospenderlo dietro presentazione della documentazione necessaria. Per quest’ultima occorre fare riferimento alla modulistica che è stata aggiornata e semplificata ed è disponibile dallo scorso lunedì 30 marzo sul sito internet del Ministero dell’Economia e delle finanze.

Alla domanda andrà allegato il provvedimento che autorizza un trattamento di sostegno al reddito, come l’indennità di disoccupazione, o una dichiarazione del datore di lavoro che attesti la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro per cause non riconducibili alla sua responsabilità. In questo documento andranno riportati il tempo di sospensione e la percentuale di riduzione dell’orario.

Ci sono, poi, le regole per gli autonomi e i professionisti, che si applicheranno fino al 17 dicembre. Per accedere al congelamento bisognerà presentare un’autocertificazione che attesti di avere registrato, nel trimestre successivo al 21 febbraio o nel periodo tra il 21 febbraio e la domanda (se minore di un trimestre), un calo del proprio fatturato medio giornaliero superiore al 33% rispetto al fatturato medio giornaliero dell’ultimo trimestre del 2019, a causa dell’emergenza coronavirus.

Per accedere al Fondo, in deroga alle regole ordinarie, non serve presentare l’Isee. E, anche in questo caso, il limite massimo per la sospensione del mutuo è pari a 18 mesi. I mutui per i quali, al momento della presentazione della domanda, sia ripreso da almeno tre mesi l’ammortamento regolare delle rate potranno accedere alla sospensione, senza limitazioni. Per loro non si terrà conto delle sospensioni già concesse.