Editoriali

GLI ENTI RELIGIOSI ALLA PROVA DELLA RIFORMA DEL TERZO SETTORE: IL RAMO ETS COME OBBLIGO OD OPPORTUNITÀ?

a cura di Martina Lumini

16 Dicembre 2019

Da molti mesi sentiamo ripetutamente parlare di “Riforma del Terzo Settore”. 

Si tratta di un intervento normativo che ha interessato l’ambito del c.d. non profit1 ed ha consentito di superare quel “particolarismo legislativo2, tipico della disciplina ante riforma, attraverso la predisposizione di una normativa più uniforme e compatta, che ha reso possibile una più compiuta attuazione dei principi costituzionali sanciti agli artt. 23 e 118, 4° comma4 Cost.

L’iter di riforma ha avuto inizio con l’emanazione della legge delega n. 106/16 e dei suoi successivi decreti attuativi, tra i quali, ai fini della nostra analisi, assume rilievo il D.Lgs. 117/17 c.d. il Codice del Terzo Settore5.

La lunga attesa che ha accompagnato la Riforma non è bastata a rendere immune da  censure e/o critiche il testo del D.lgs. 117/17: in merito, il Consiglio di Stato, chiamato ad esprimere un proprio parere sul predetto Decreto,  ha evidenziato che il contenuto della legge delega n. 106/16 avrebbe consentito al Governo di poter realizzare  un riordino normativo della materia ancor più complesso ed organico rispetto a quello posto in essere6.

Tralasciando questa breve considerazione di carattere generale, ciò che qui interessa è osservare se e come gli enti religiosi siano stati inseriti all’interno della Riforma del Terzo Settore. 

Il tema ha richiesto una particolare attenzione da parte del Legislatore, il quale, ben consapevole dell’apporto e dell’impegno da sempre profuso dalle realtà religiose nell’ambito del non profit, ha disciplinato la questione mediante l’introduzione all’art. 4 del comma 3 C.t.s., il quale stabilisce che “(..) Agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’articolo 5 (..)”.

Per comprende il significato ma soprattutto i risvolti pratici di questa disposizione, occorre andare con ordine e soffermarsi, in primis, sulla locuzione “enti religiosi civilmente riconosciuti”, utilizzata dal Legislatore.

Le confessioni religiose operano nel nostro ordinamento tramite enti ad esse collegate – che dal punto di vista giuridico assumono la forma di organismi associativi o fondatizi – i quali attraverso determinate procedure7, possono ottenere il riconoscimento della personalità giuridica e divenire, appunto, “enti religiosi civilmente riconosciuti”8

Presupposti essenziali per il riconoscimento sono: i) l’appartenenza, ossia l’elemento di collegamento organico che lega l’ente all’autorità ecclesiastica9; ii) la nazionalità italiana, l’ente ecclesiastico deve avere la propria sede in Italia; iii) il perseguimento del fine di religione o di culto, il quale – secondo il dettato normativo riportato all’art. 2, ult. comma l. 222/85 – deve rappresentare il fine “costitutivo ed essenziale dell’ente, anche se connesso a finalità di carattere caritativo10.

Proprio quest’ultimo presupposto, ed in particolare il suo carattere “costitutivo ed essenziale”, si pone in contrasto con quanto stabilito dall’art. 4, comma 1 C.t.s., laddove afferma che sono enti del Terzo Settore soltanto quelli che svolgono “in via esclusiva o principale” una o più delle attività d’interesse generale indicate al successivo art. 5 C.t.s.

A questo punto, risulta utile precisare che le attività con finalità di religione e/o di culto non sono riconducibili né all’interno delle attività d’interesse generale, di cui all’art. 5 C.t.s. né, tantomeno, nelle c.d. “attività diverse”, cui fa riferimento, invece, il successivo art. 6 C.t.s..11;

Questa inconciliabile alternanza di finalità ha imposto al Legislatore la predisposizione di una previsione normativa derogatoria, quale, appunto, quella contenuta nel comma 3 dell’art. 4 C.t.s. 

Detta norma ha riconosciuto agli enti religiosi civilmente riconosciuti la possibilità di applicare la disciplina prevista dal D.Lgs 117/17, e quindi i benefici ad essa collegati, “limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’art. 5 C.t.s.” .

La soluzione, che meglio rappresenta l’avverbio “limitatamente”, richiamato dall’art. 4 C.t.s., è stata individuata nella costituzione di un “Ramo Terzo Settore”, peraltro rimodulando una soluzione già sperimentata  nella previgente normativa sulle Onlus, nella quale si parlava, invece, di “Ramo Onlus” degli enti ecclesiastici12.

L’adozione di questo modus operandi consente all’Ente religioso di poter effettuare al suo interno una distinzione tra le attività con finalità di religione o di culto e le attività di interesse generale e di poter  avvalersi della disciplina del Terzo Settore, e dei suoi benefici, solo con riferimento a quest’ultime.  

La costituzione di un Ramo, oltre ad evitare che gli Enti religiosi debbano creare ad hoc enti civili di Terzo Settore per continuare a gestire le loro attività d’interesse generale, risulta in linea con il disposto dell’art. 20 Cost., il quale afferma che il carattere  ecclesiastico ed il fine religioso o di culto di un associazione od di altra istituzione non possano essere causa di “speciali limitazioni legislative” e di “speciali gravami fiscali”.

Per comprendere al meglio ciò di cui stiamo parlando, occorre poi confrontarsi con cui gli Enti religiosi interessati potranno accedere, seppure in maniera limitata, alla nuova normativa del Terzo Settore. 

Nello specifico, le condizioni poste dal nuovo Codice sono: i) dotarsi di un Regolamento redatto dall’organo amministrativo dell’Ente, sotto forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, il quale “nel rispetto della struttura e delle finalità di tali Enti” e fatte salve le deroghe previste dal Legislatore13,  recepisca le norme del C.t.s. e consenta l’individuazione delle attività d’interesse generale che si intendono svolgere con il costituendo Ramo; ii) dotarsi di un Patrimonio destinato o meglio indicare i beni mobili ed immobili che si intendono destinare e/o utilizzare per l’esercizio delle attività d’interesse generale. Questa previsione, che costituisce una novità rispetto alla previgente disciplina del “Ramo Onlus” – richiamata in precedenza – assolve il compito di facilitare, in caso di estinzione del Ramo o di perdita della qualifica di ETS, la determinazione del patrimonio residuo del Ramo14 che, ai sensi dell’art. 9 C.t.s., dovrà essere devoluto ad altri ETS15; iii) dotarsi di una contabilità separata per il Ramo in conformità a quanto previsto dall’art. 13 C.t.s. 

Alla luce delle considerazioni svolte, si può affermare che la costituzione di un “Ramo Terzo Settore” rappresenti, per gli enti religiosi, un’opportunità e non un obbligo, poiché, non dobbiamo dimenticare  che gli Enti religiosi ben potrebbero decidere di continuare ad esercitare le proprie attività d’interesse generale, in tutto o in parte, al di fuori del Ramo, rinunciando, in questo caso, a godere dei benefici che scaturiscono dall’applicazione della disciplina del Terzo Settore.

Non c’è dubbio che, la convenienza o meno di questa soluzione dovrà essere valutata caso per caso, tenuto conto non soltanto della struttura dell’Ente religioso ma anche delle dimensioni e delle esigenze gestionali delle attività d’interesse generale cui si fa riferimento.


1 Il settore non profit si riferisce alle organizzazioni private che svolgono attività di utilità sociale senza perseguire un profitto.

2 V. MONTANI, G. PONZANELLI, “Dal groviglio di leggi speciali al Codice del Terzo Settore” in fici, “La riforma del Terzo Settore e dell’impresa sociale. Un’introduzione”, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018.

3 Art. 2 Cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

4 Art. 118, 4 comma Cost.: “(..)Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.”.

5 Per un’analisi più approfondita della normativa nazionale e regionale conseguente alla riforma del terzo Settore si rinvia al precedente numero della nostra rivista (n. 05/2019 di ottobre) nel quale, all’interno della sezione “Agenda”, il tema è stato ampiamente trattato.

6 CONSIGLIO DI STATO, Commissione Speciale, parere del 14.06.17 n. 1405, avente ad oggetto l’analisi del D.Lgs 117/17: nello specifico, il Consiglio ha evidenziato che la legge delega n. 106/16, art. 1, comma 2, lett. a) stabilisce che, tra le altre cose, i decreti legislativi delegati debbano provvedere anche  “alla revisione della disciplina del Titolo II, Libro I del codice civile in materia di associazioni, fondazioni ed altre istituzioni di carattere privato senza scopo di lucro, riconosciute come persone giuridiche o non riconosciute”. Questa scelta che – si badi bene – rientra tra le discrezionalità del Governo, si è limitata, secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato, a “(..) creare soltanto un sotto-settore delle associazioni e fondazioni operanti nel Terzo Settore” la quale “ avrà verosimilmente l’effetto di determinare un ulteriore svuotamento di contenuto normativo del Libro I del codice civile (..)”. Questa considerazione assume ancor più rilievo, se teniamo conto che la disciplina del D.lgs. 117/17 dovrà esser letta in parallelo con le norme del Codice Civile per tutti quegli aspetti che non sono stati oggetto di trattazione da parte del nuovo Codice del Terzo Settore.

7 Le modalità con cui è possibile ottenere la qualifica di ente religioso civilmente riconosciuto sono quattro: a) riconoscimento per decreto; b) riconoscimento per antico possesso di stato; c) riconoscimento per legge; d) procedimento abbreviato previsto dall’art. 22 della l. 222/85.

8 E. VITALI, A. CHIZZONTI, Manuale breve di diritto ecclesiastico, Giuffré editore, 2017, pagg. 106 e ss.: In merito appare utile precisare che “non tutti gli ‘enti ecclesiastici’ sono ‘enti ecclesiastici o religiosi civilmente riconosciuti’, essendo la prima categoria più ampia della seconda. È possibile, infatti, che un ente ecclesiastico non possa o non voglia – pur presentando tutti i requisiti – ottenere questa forma di riconoscimento (..)”.

9 E. VITALI, A. CHIZZONTI op. cit. pagg. 107 e ss.: L’ordinamento italiano, ai fini della sussistenza del predetto presupposto, richiede “(..) che sia garantita la conformità confessionale, ovvero che l’ente che aspira al riconoscimento sia stato approvato come tale dagli organi competenti della confessione di appartenenza. Così, per gli enti cattolici, l’art. 7, n. 2 dell’Accordo del 1984 (Accordo di Villa Madama) afferma il principio che la Repubblica italiana riconoscerà la personalità giuridica su domanda dell’autorità ecclesiastica o col suo consenso (..)”. La successiva legge 222/1985 ribadisce quanto poc’anzi detto prima all’art. 1 e poi all’art. 3.

10 L. SIMONELLI, La riforma del terzo settore e gli enti religiosi: il ramo ed il regolamento, pag. 20: “Il fatto che gli enti ecclesiastici siano tali a condizione che abbiano fine di religione o culto (..) non implica che ad essi sia vietato svolgere attività diverse da quest’ultime (..)”. Infatti, essi “(..) da sempre gestiscono e finanziano anche iniziative ed opere che a pieno titolo rientrano tra quelle di interesse generale (..)”.

11 Questo è quanto affermato dal Ministero del lavoro e delle politiche Sociali con la Nota n. 3734 del 15.04.2019 nella quale, rifacendosi alla definizione di attività religiosa e di culto predisposta dal Consiglio di Stato  nel provvedimento del 15.01.2013 n. 181, ritiene “problematica” la qualificazione delle stesse tra le attività diverse di cui all’art. 6 D.L.gs. 117/17 “data la necessaria strumentalità di queste ultime rispetto alle attività di interesse generale” di cui all’art. 5 C.t.s.

12 Il riferimento è all’art. 10, comma 9 D.Lgs. 460/97 che prevede la possibilità per gli Enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese di costituire il c.d. Ramo Onlus per l’esercizio delle attività di cui all’art. 10,  comma 1, lett. a), fatta eccezione per la prescrizione contenuta alla lett. c), comma 1 del medesimo articolo.

13 Il D.Lgs. 117/17  individua espressamente due disposizioni normative, a cui gli Enti religiosi non sono tenuti ad adeguarsi e che pertanto non debbono essere recepiti nel Regolamento: -Art. 12, comma 2 C.t.s. secondo cui nella denominazione sociale del ramo non è obbligatorio inserire “l’indicazione di ente del terzo Settore o l’acronimo ETS”; – Art. 15, comma 4, il quale esclude di riconoscere ai soci o agli aderenti dell’Ente religioso, che abbia costituito un Ramo, il diritto di esaminare i libri contabili di quest’ultimo; – Art. 29, comma 2 C.t.s. secondo cui il diritto di denunzia al tribunale e ai componenti dell’organo di controllo non si applicano al ramo. Accanto agli articoli appena citati, ve ne sono altri che, del pari, non dovranno essere recepiti dal Regolamento, non per espressa disposizione da parte del Legislatore, ma in quanto incompatibili con la struttura e le finalità dell’ente, che spetterà all’interprete verificare caso per caso. 

14 L’art. 50, comma 2 C.t.s. cerca di dare una concreta definizione al concetto di “patrimonio residuo” presente nell’art. 9 C.t.s., individuandolo “nell’incremento patrimoniale realizzato negli esercizi in cui l’ente è stato iscritto nel registro Unico Nazionale”.

15 Si esclude che la costituzione di un Patrimonio Destinato possa assolvere ad una funzione simile a quella dei “Patrimoni destinati ad uno specifico affare” ex art. 2447-bis c.c., non essendo prevista nel C.t.s. alcuna limitazione di responsabilità ex art. 2740, comma 2 c.c.