Editoriali

IL DISEGNO DI LEGGE PILLON N. 735 “NORME IN MATERIA DI AFFIDO CONDIVISO, MANTENIMENTO DIRETTO E GARANZIA DI BIGENITORIALITÀ”

a cura di Martina Lumini

16 Marzo 2019

Il disegno di legge, primo firmatario il Senatore Simone Pillon, presentato il 2 agosto 2018 e attualmente in discussione al Senato, Commissione giustizia, oltre ad alcune importanti norme di riforma del processo, in coerenza al titolo, si occupa di alcuni istituti di diritto sostanziale che regolano la responsabilità genitoriale.

Questo credo sia l’aspetto che interessa i lettori.

L’affidamento e il collocamento vengono riformati rispetto all’intervento della legge n. 54 del 2016, seguito dalle normative sulla filiazione del 2012 e 2013, sancendo un principio di bi-genitorialità pieno e rigido, nel primo comma dell’art. 337 – ter c.p.c. novellato, inteso come diritto di trascorrere con ciascuno dei genitori tempi paritetici e equipollenti, salvo i casi di “impossibilità materiale”, in ragione “della metà del proprio tempo, compresi i pernottamenti, con ciascuno dei genitori”.

E da ritenere che l’impossibilità materiale dipenda da ragioni eccezionali, ovvero non avere uno dei genitori un luogo idoneo per ospitare per il periodo il proprio figlio e non da altre (tra di esse – ad esempio – il “nomadismo” del minore oppure la perdita di un luogo di riferimento spaziale per l’educazione e la crescita del minore, sul quale la scienza psicologica ha speso fiumi di inchiostro).

Ciò rende la norma applicabile ai genitori con reddito alto e quindi patrimonio che consente idonee separate abitazioni personali e non ai genitori con redditi bassi o peggio ancora privi di patrimonio, ai quali normalmente la separazione conduce a significative difficoltà economiche per reperire un alloggio alternativo, anche solo per sé stessi.

La norma incontra poi la difficoltà di un figlio che rischia di non avere più un luogo di riferimento, ai fini della crescita ed educazione, nel quale essere collocato. E’ il già ricordato fenomeno di “nomadismo” a cui sarebbe costretto il minore.

Forse per tale ragione il legislatore, al secondo comma novellato, sembra rettificare l’espressione generale con cui si apre lo stesso comma (“tempi paritetici”), prevedendo (evidentemente per il genitore non collocatario) almeno 12 giorni al mese da trascorrere con il figlio (è l’ipotesi per lo più praticata nelle aule giudiziarie).

La deroga ulteriore tuttavia è consentita per il “comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio minore in caso di 1) violenza, 2) abuso sessuale; 3) trascuratezza; 4) indisponibilità di un genitore; 5) inadeguatezza degli spazi predisposti per la vita del minore”.

La norma dunque è nella direzione di un limitato potere discrezionale del giudicante, essendo rese in maniera molto oggettiva e precisa le ipotesi che escludono i tempi rigorosamente paritetici.

Al contrario le controversie familiari e minorili, ove i casi prospettati sono diversi uno dall’altro, rendono ancor più necessaria una “giustizia del caso concreto”, ove la regola di comportamento non deve essere rigidamente imposta dal legislatore, ma discrezionalmente applicata dal giudice, alla luce delle caratteristiche della fattispecie del caso concreto.

Per buona sorte il criterio adottato dal legislatore può sempre essere derogato da un diverso accordo tra i coniugi (si deve pensare comunque soggetto ad un vaglio di rispondenza con l’interesse del minore da parte del giudice, rimanendo comunque inusitato il profilo del conflitto di interessi che imporrebbe comunque una rappresentanza processuale del minore).

I periodi paritetici assicurati come criterio preferenziale salvo la graduazione delle deroghe di cui si è detto, prelude, negli ultimi commi novellati dell’art. 337 – ter c.c. al c.d. contributo “diretto”: al mantenimento, senza erogazione di un’assegno, che se anche previsto (si deve pensare nei casi di deroga ai periodi paritetici), deve essere sempre temporaneo (il giudice ne fissa infatti un termine) e comunque condurre ad ogni iniziativa opportuna tra le parti per il suo superamento.

Quanto al figlio maggiorenne (art. 337 – septies c.c.), è ribadita l’azione diretta a tutela del proprio mantenimento (ancora nel silenzio della legge nelle forme ordinarie di un processo di cognizione), con cessazione al compimento del venticinquesimo anno di ogni obbligo di contribuzione (norma assai discutibile sul piano della costituzionalità) oppure nel caso, questo certamente condivisibile, com’è insegnamento del giudice di legittimità, del figlio “bamboccione” che rifiuta occasioni di lavoro o ritarda ingiustificatamente l’esaurimento del ciclo di studi.

E’ questa evidentemente la parte che sarà più discussa sul piano del merito.

L’affidamento condiviso è la formula ovviamente ancora prevalente, potendo essere relegato quello esclusivo solo ad ipotesi estreme, senza che sia negato al genitore non affidatario il diritto di avere rapporti significativi con il proprio figlio e di condividere le decisioni di maggiore interesse per il figlio, di vigilare sul comportamento del genitore affidatario e di ricorrere al giudice se necessario.

Nell’ipotesi che l’affidamento non possa essere disposto ad alcuno dei genitori, è privilegiato l’affidamento familiare in altro nucleo familiare (e non in casa famiglia), preferibilmente parentale o di famiglia nel luogo di residenza del minore, senza che sia negato il diritto dei genitori a rapporti significativi con il minore e sia favorito un recupero della capacità genitoriale dei genitori naturali.

La riforma dell’assegnazione della casa familiare è destinata a suscitare numerose perplessità nel merito, ma anche sul piano tecnico.

Pure nel caso della periodizzazione paritetica del collocamento si sancisce la doppia residenza del minore, ciò che esclude l’assegnazione della casa coniugale.

Resta la facoltà del giudice di provvedervi nel superiore interesse del minore, ma in tal caso il genitore che risiederà nella casa familiare non è quello che assicuri una maggiore continuità assistenziale ed educativa (sempre nell’interesse del minore), ma solo quello che abbia un diritto di proprietà o reale minore o personale di godimento sull’immobile oppure quello che comunque potrà versare all’altro, titolare dei diritti menzionati, un indennizzo pari al canone di mercato. Anche questa soluzione desta forti perplessità di tenuta costituzionale.

Insomma la madre priva di reddito o di un patrimonio, per scelta di continuità anche educativa dei figli, magari condivisa dal marito prima della crisi, non potrà risiedere nell’abitazione familiare di proprietà del marito o sulla quale questi abbia un diritto dominicale o personale.

Una soluzione retta da criteri diversi dall’interesse del minore, quanto alla scelta del genitore coabitante, desta, come detto, forti dubbi di costituzionalità.

Invece certamente auspicabili le norme, 3° e 4° comma dell’art. 336 – sexies c.c., sull’obbligo di comunicazione del cambio di residenza di un genitore all’altro e sulla necessità di un consenso di entrambi, per il caso che uno dei genitori voglia trasferire il minore in altro luogo o iscriverlo in una diversa scuola (con la sanzione, in caso di violazione, di un recupero manu militari del minore trasferito da parte dell’autorità di pubblica sicurezza: ma deve intendersi senza ordine del giudice?).

Il disegno di legge – e questo è un aspetto pregevole – offre finalmente una regolamentazione della professione del mediatore familiare, destinato con apposite tecniche e procedimenti a placare il conflitto tra i genitori e a favorire un dialogo tra di essi nell’interesse del figlio che possa concludersi con un vero e proprio accordo.